La Misteriosa Isola di Taprobane

L’isola di Taprobane in una mappa del 1513. Da qui.

Taprobane, o Taprobana, è un’isola menzionata da diversi autori antichi, situata “da qualche parte” nell’Oceano Indiano, ma mai identificata con certezza. L’ipotesi più accreditata tra gli studiosi è che Taprobane sia da identificarsi con lo Sri Lanka; tuttavia, sono state proposte anche Sumatra e il Madagascar. Come spesso accade, le imprecisioni geografiche e la mitizzazione di terre e popoli realmente esistenti producono un “intreccio” di indicazioni contradditorie che è poi difficile districare.

Ma è ciò che cercheremo di fare in questo articolo: esamineremo infatti le testimonianze antiche sull’isola, le mappe che la raffigurano e le varie ipotesi di localizzazione, fra le quali cercheremo di stabilire la più attendibile.

Le fonti storiche

La principale fonte antica su Taprobane è la Storia Naturale di Plinio (VI, 81-91), il quale non manca di passare brevemente in rassegna anche le testimonianze di autori precedenti. Egli afferma che solo al tempo di Alessandro Magno fu chiarito che Taprobane era un’isola; prima era considerata quasi un altro mondo, la “terra degli Antictoni” (cioè gli abitanti dell’emisfero australe). Megastene affermava che l’isola era divisa in due da un fiume e che i suoi abitanti erano più ricchi d’oro e di grosse perle rispetto agli Indiani. Eratostene ne fornì come misure 7000×5000 stadi (1 stadio alessandrino ≈ 185 metri), e asserì che non vi erano città ma 750 villaggi.

Secondo un’opinione già vecchia al tempo di Plinio, Taprobane distava 20 giorni di navigazione dalla regione dei Prasi (basso corso del Gange), ma in seguito la distanza venne stimata in soli 7 giorni di navigazione. Il mare tra l’isola e l’India aveva fondali “profondi non più di sei passi”, anche se in certi punti il mare era così profondo che l’ancora non ne toccava il fondo.

Plinio riporta anche altre informazioni, ottenute da un’ambasciata dell’isola che giunse a Roma al tempo dell’imperatore Claudio, guidata da un certo “Rachia” (forse una resa latina del titolo di rajà). Qualche tempo prima un liberto di Annio Plocamo (esattore delle tasse nella zona del Mar Rosso), mentre navigava al largo dell’Arabia, era stato colto da una tempesta e dopo 15 giorni di navigazione, spinto dal vento di nord-est, era approdato al porto di Ippuri a Taprobane. Il re lo aveva accolto e, una volta appresa l’esistenza dei Romani e della loro grande civiltà, aveva inviato ambasciatori per allacciare rapporti con loro.

Gli ambasciatori spiegarono che sull’isola sorgevano ben 500 città, la più importante delle quali era Palesimundo, che ospitava il palazzo reale, disponeva di un porto rivolto verso sud e contava la bellezza di 200.000 abitanti. All’interno dell’isola si trovava il lago di Megisba, con una circonferenza di 375 miglia (1 miglio romano ≈ 1480 metri) e isole interne ricche di pascoli; dal lago nascevano due fiumi: il Cidara, che scorreva verso nord, e il Palesimundo, largo 15 stadi nel punto più ampio, che raggiungeva il porto della città omonima e sfociava in mare attraverso tre canali. Il promontorio dell’India più vicino a Taprobane era detto Coliaco ed era situato a 4 giorni di navigazione; a metà strada si trovava l’Isola del Sole. La costa dell’isola posta a sud-est dell’India misurava 10.000 stadi.

Durante le feste, la popolazione si dedicava alla caccia, in particolare alle tigri e agli elefanti; veniva praticata anche la pesca delle testuggini, i cui gusci erano così grandi da poter ricoprire i tetti delle case (!). C’erano molti campi coltivati, ma non vigne. Oro ed argento avevano un grande valore, ma erano molto apprezzate anche perle, gemme ed “un tipo di marmo il cui aspetto ricorda quello di un guscio di tartaruga”.

Plinio riferisce anche che gli ambasciatori “si stupivano dell’Orsa Maggiore e delle Pleiadi, come se si trovassero sotto un cielo del tutto nuovo… Ma la cosa che li meravigliava di più era che le loro ombre cadessero a nord e non a sud e che il sole sorgesse a sinistra e tramontasse a destra invece di fare il contrario”.

Un’altra fonte su Taprobane è il VII libro della Geografia di Tolomeo, risalente alla metà del II secolo. Tolomeo fornisce le coordinate geografiche di Taprobane e di numerose località dell’isola, cosa che ha permesso agli editori medievali di arricchire la sua opera con mappe. Purtroppo, però, le indicazioni sulla longitudine sono molto imprecise; ciò ha senz’altro contribuito, nel corso dei secoli, all’incertezza sulla collocazione dell’isola.

Tra le località citate da Tolomeo vi sono: il promontorio Ceteo; i monti Galibi, da cui nascono i fiumi Fasi e Gange; il monte Malea, da cui nascono i fiumi Soana, Azano e Barace; e diverse città (che però, come vedremo, sembrano appartenere ad isole differenti). Inoltre Tolomeo nomina parecchie isole situate in prossimità di Taprobane e afferma che il loro numero complessivo ammonta a 1378. Anche lui, come Plinio, menziona la presenza sull’isola di elefanti e tigri; afferma anche che vi si trovano varie specie di metalli e pietre preziose.

Mappa di Taprobane in un’edizione del 1486 della Geografia di Tolomeo. Da qui.

Col tempo Taprobane finì per diventare un’isola semileggendaria, abitata da formiche grandi come cani e dagli Sciapodi, uomini con un unico, gigantesco piede. Ciò rende le fonti più “moderne” inutili per la localizzazione dell’isola. Tuttavia, come vedremo fra un attimo, le informazioni riportate da Plinio e Tolomeo sono più che sufficienti per risolvere il mistero.

Una possibile localizzazione

Adesso che possediamo tutte le indicazioni necessarie, cerchiamo di stabilire quale isola, tra quelle che troviamo ancor oggi sugli atlanti geografici, le rispecchi al meglio. Come già ricordato all’inizio di questo articolo, l’opinione che gode di maggior consenso tra gli studiosi è che Taprobane fosse l’antico nome dello Sri Lanka. Non manca però chi identifica l’isola con Sumatra. Oltre a queste due, vi sono altre ipotesi minoritarie, ma non meno interessanti: recentemente, per esempio, mi sono imbattuto in questo ottimo libro di un autore indonesiano, Dhani Irwanto, che propone diverse argomentazioni per identificare Taprobane con il Borneo. Esaminiamo la questione nel dettaglio.

Cominciamo dalle dimensioni dell’isola. Le misure fornite da Eratostene (7000 stadi di lunghezza per 5000 di larghezza, ossia circa 1295×925 km) sono decisamente inadeguate per lo Sri Lanka, che misura appena 432×224 km, ma anche per Sumatra, che è sia “troppo lunga” (1790 km) che “troppo stretta” (435 km nel punto più ampio). Al contrario, si adattano molto bene al Borneo, che misura 1336×960 km; l’errore sarebbe di appena il 3%.

Non solo: secondo gli ambasciatori di Taprobane giunti a Roma, la costa dell’isola situata a sud-est dell’India (torneremo più avanti su cosa intendessero effettivamente per “India”) misurava 10.000 stadi, ossia circa 1850 km. Si tratta di una misura compatibile con la lunghezza complessiva delle coste occidentali del Borneo, che fanno parte degli Stati malesi di Sarawak e Sabah e del Brunei.

Passiamo adesso alla posizione di Taprobane. Per quanto riguarda la latitudine, le mappe antiche basate sulla Geografia di Tolomeo mostrano inequivocabilmente che parte dell’isola era situata a sud dell’Equatore: ciò porta ad escludere lo Sri Lanka, il cui punto più meridionale si trova circa 5° a nord. Al contrario, sia Sumatra che il Borneo sono tagliate in due dall’Equatore, sebbene il primo sia molto più simile all’isola raffigurata sulle mappe.

Sovrapposizione della mappa di Taprobane tratta dalla figura precedente con le sagome di Borneo, Sri Lanka e Sumatra (adattate alle dimensioni dell’isola). Come si può notare, il Borneo è l’isola che si adatta meglio alla mappa.

A supportare una localizzazione almeno parzialmente subequatoriale di Taprobane sono anche le affermazioni degli abitanti (nonché il loro antico appellativo di “antictoni”) secondo cui presso di loro le ombre cadevano a sud. Non è attendibile, tuttavia, l’affermazione secondo cui essi sembravano non aver mai visto l’Orsa Maggiore e le Pleiadi, dato che la prima è visibile perfino dal Madagascar, mentre le Pleiadi sono osservabili pressoché da ogni angolo del globo.

Per quanto riguarda la longitudine, la questione è un po’ più complicata, poiché l’opera di Tolomeo non è attendibile su questo parametro. Plinio però ci informa che Taprobane distava 20 giorni di navigazione dalla regione dei Prasi (basso corso del Gange), sebbene subito dopo fornisca un tempo di soli 7 giorni, basato a suo dire su stime più recenti. A mio avviso, però, queste diverse tempistiche potrebbero essere dovute alla confusione (forse già presente ai tempi di Plinio) tra il Borneo e lo Sri Lanka: infatti, la lunghezza approssimativa del percorso in nave tra la foce del Gange e queste due isole ammonta rispettivamente a 3500 e 1700 km, il cui rapporto è di circa 2:1. Il maggior numero di scali nella rotta verso il Borneo e/o l’impiego di navi con diversa velocità potrebbe aver contribuito ad aumentare il rapporto fra le due tempistiche, che è di quasi 3:1.

Ma Plinio ci fornisce un’altra preziosa informazione, ottenuta dagli ambasciatori di Taprobane: secondo questi ultimi, infatti, il promontorio dell’India detto Coliaco distava 4 giorni di navigazione dalla loro isola; a metà strada si trovava l’Isola del Sole. Ora, è impossibile che queste affermazioni si riferiscano allo Sri Lanka, che dista “un tiro di schioppo” dall’India: l’India che intendevano loro era probabilmente l’odierna Indocina (non dimentichiamo che nel corso dei secoli il termine “India” ha indicato anche regioni geografiche diverse dal subcontinente indiano). E il promontorio Coliaco? È logico identificarlo con la penisola di Malacca, che dista circa 500 km dal Borneo. L’Isola del Sole è localizzabile invece fra le Isole Riau, alcune delle quali si trovano – appunto – a circa metà strada fra il Borneo e la penisola malese.

Taprobane (il Borneo) ed il promontorio Coliaco (la penisola malese). L’Isola del Sole potrebbe corrispondere ad una delle Isole Riau.

Sappiamo anche che il mare intorno a Taprobane aveva dei fondali molto bassi, ennesimo particolare che rende difficile l’identificazione con lo Sri Lanka, ma che si adatta benissimo alla geografia dell’Indonesia. In particolare, a nord-ovest del Borneo si trovano degli atolli sommersi in corrispondenza dei quali il mare è profondo pochi metri. Non molto distante si trova una fossa la cui profondità supera i 2000 metri: si spiega così l’affermazione di Plinio secondo cui in certi punti l’ancora non poteva toccare il fondo del mare.

Che dire poi delle 1378 isole che, secondo Tolomeo, si trovavano in prossimità di Taprobane? Anche qui, si tratta di un numero coerente con la realtà dell’arcipelago indonesiano; nei pressi dello Sri Lanka, invece, se ne trovano solo alcune decine.

Veniamo ora alla città più importante dell’isola, Palesimundo. Innanzitutto, da dove potrebbe derivare il suo nome? A mio avviso, potrebbe trattarsi di una deformazione di Pulu K’lemantan, l’antico nome del Borneo nella lingua locale. Può darsi, quindi, che la città avesse tratto il suo nome da quello dell’isola; ma è altresì possibile che i Romani avessero scambiato il nome dell’isola per quello della sua capitale.

Per quanto riguarda l’ubicazione della città, sappiamo che sorgeva in prossimità di un fiume e che possedeva un porto rivolto verso sud. Il fiume, inoltre, sfociava in mare attraverso tre canali e nel punto più ampio era largo 15 stadi (oltre 2 chilometri e mezzo). Dhani Irwanto, nel suo libro, ipotizza che i tre “canali” siano in realtà fiumi, e precisamente il Kahayan, il Kapuas e il Barito, le cui foci si trovano nella costa meridionale dell’isola, insolitamente vicine l’una all’altra. Palesimundo, secondo lui, corrisponderebbe all’odierna Banjarmasin, e l’omonimo fiume al Barito, le cui misure vicino alla foce sono compatibili con quelle date da Plinio.

Io ritengo che ci sia un’altra possibile ubicazione, corrispondente pressappoco all’odierna Pontianak. Il fiume Palesimundo potrebbe corrispondere al Kapuas (un omonimo di quello citato poc’anzi), che ha una foce a delta (ecco spiegata la presenza di “canali”) e che con i suoi 1143 km di lunghezza è il più lungo fiume di tutta l’Indonesia. Anche l’ampiezza della foce, superiore ai 2 km, è compatibile con le misure fornite da Plinio. Sebbene la foce del fiume si trovi sulla costa occidentale dell’isola, il porto potrebbe essere stato comunque rivolto a sud, semplicemente perché in quel punto la costa (o la riva del fiume in cui sorgeva) guardava in quella direzione.

Possibile ubicazione di Palesimundo, la capitale di Taprobane.

Cerchiamo ora di identificare altre località menzionate da Plinio e Tolomeo. Partiamo dal porto di Ippuri, dove secondo Plinio approdò il liberto di Annio Plocamo. Il fatto che quest’ultimo venne accolto dal re dell’isola indica che probabilmente Ippuri non era molto lontana da Palesimundo, dove appunto risiedeva il re. Ora, in lingua indonesiana puri significa “palazzo, residenza reale”: e se Ippuri non fosse altro che il nome locale di Palesimundo, sede del palazzo reale e anch’essa dotata di un porto? Direi che è un’ipotesi da tenere in considerazione…

Le città elencate da Tolomeo sembrano confermare il sospetto avanzato poc’anzi, e cioè che la confusione tra il Borneo e lo Sri Lanka fosse già presente nell’antichità. A titolo di esempio, basti citare le due città (menzionate nella Geografia) di Anurogrammo e Sindocanda. Quest’ultima, che le mappe collocano sulla costa occidentale dell’isola, sembra corrispondere a Sukadana, una città costiera del Borneo (anche se il nome e la latitudine la avvicinano piuttosto alla Sandakan malese, situata però nel Borneo nordorientale). Al contrario, Anurogrammo, citata per prima fra le città dell’entroterra in quanto capitale di Taprobane, corrisponde chiaramente (per sia per nome che per latitudine) alla città di Anuradhapura in Sri Lanka, che fu appunto l’antica capitale dell’isola.

Altre località citate da Tolomeo, tuttavia, ci indirizzano inequivocabilmente verso il Borneo: il promontorio Ceteo, collocato in corrispondenza dell’estremità sudorientale dell’isola, corrisponde molto bene al Tanjung Selatan (cioè “Capo del Sud”). I monti Galibi, situati a nord, potrebbero corrispondere agli Altopiani di Kelabit nel Borneo settentrionale, mentre il nome del monte Malea si ritrova ancor oggi nella reggenza di Melawi, dove si trovano diversi rilievi montuosi.

E i fiumi di Taprobane? Il Palesimundo, come abbiamo ipotizzato poco fa, potrebbe corrispondere al Kapuas, mentre il Cidara al Lupar, che scorre nel Borneo malese in direzione nord-ovest. Entrambi questi fiumi, secondo Plinio, nascevano dal lago di Megisba, di cui però non c’è traccia. Tuttavia, il Kapuas incontra nel suo corso il grande lago Danau Sentarum (danau in indonesiano significa appunto “lago”), mentre il Lupar è un emissario del Batang Ai. Che i due laghi, non molto distanti fra loro, siano stati scambiati per uno solo? Comunque ritorneremo tra poco sulla questione del lago di Megisba.

I fiumi citati da Tolomeo potrebbero essere così identificati: il Fasi e il Gange, che nascevano dai monti Galibi, potrebbero corrispondere rispettivamente al Kinabatangan e al Kayan; il Soana, l’Azano e il Barace, che nascevano dal monte Malea, potrebbero corrispondere al Melawi (un affluente del Kapuas), al Pawan e al Barito, rispettivamente (anche se quest’ultimo nasce molto più a est dei primi due). A questo punto possiamo spiegare anche l’affermazione di Megastene secondo cui Taprobane era tagliata in due da un fiume: alcuni dei maggiori fiumi del Borneo, infatti, hanno le sorgenti nel centro dell’isola, relativamente vicine fra loro, ma scorrono in direzioni opposte; il Borneo quindi appare davvero “tagliato in due”, non da un singolo corso d’acqua ma da coppie di fiumi (per esempio il Kapuas e il Kayan).

Rilievi montuosi e alcuni fiumi di Taprobane, localizzati nel Borneo.

Per quanto riguarda le ricchezze naturali dell’isola, sono meno utili ai fini dell’identificazione, poiché non sono specifiche di un’isola in particolare tra quelle proposte. Ad ogni modo, il Borneo soddisfa pienamente anche questi “requisiti”: lì troviamo sia oro che altri metalli e gemme. Anche il riferimento ai numerosi campi coltivati è coerente con la storica tradizione agricola dei Dayak, uno dei popoli nativi del Borneo. Più difficile, invece, è identificare il marmo dall’aspetto simile a un “guscio di tartaruga”; tuttavia, in Indonesia si trovano oltre 100 varietà di marmo.

Nel Borneo, inoltre, si trova una sottospecie di elefante indiano; a giudicare dai resti fossili e dai racconti dei nativi, pare che un tempo sull’isola vi fossero anche delle tigri, oggi estinte (forse proprio a causa della caccia?). Le enormi testuggini di cui parla Plinio potrebbero essere identificate con le tartarughe liuto, che possono raggiungere i due metri e mezzo di lunghezza.

Rimane da chiarire un ultimo punto: l’enorme “lago di Megisba” presente al centro dell’isola, con un perimetro di ben 375 miglia (oltre 550 chilometri!) e isole interne, che aveva come emissari i due fiumi visti in precedenza. Basta una rapida ricerca per accorgersi che da nessuna parte, né nel Borneo né nelle altre isole identificate in passato con Taprobane, esiste un lago con queste caratteristiche. Tuttavia, come abbiamo visto, nel Borneo esiste effettivamente un lago molto ampio, il Danau Sentarum. Il lago (in realtà formato da una ventina di laghi interconnessi) sorge in una vasta pianura alluvionale ed ha un’ampiezza che varia su base stagionale. Può darsi quindi che 2000 anni fa, complici forse condizioni climatiche leggermente diverse, fosse molto più esteso, abbastanza da avvicinarsi alle dimensioni fornite da Plinio.

Il Danau Sentarum: un residuo dell’antico lago di Megisba? Da qui.

I civilizzatori bianchi

Il mistero, quindi, sembrerebbe risolto: Taprobane era il Borneo! Ma possiamo fermarci qui? Certo che no: rimane ancora da chiarire chi fossero gli antichi abitanti dell’isola, nonché delle vicine isole che oggi fanno capo alla Malesia e all’Indonesia. Ma perché dovrebbe interessarci? Semplice: è probabile che almeno una parte della popolazione fosse di origine europea! Non solo: forse furono proprio dei colonizzatori europei a portare la civiltà in questi luoghi. Vediamo cosa ci porta a queste conclusioni…

Innanzitutto, la figura del “civilizzatore bianco” è presente nei miti di diverse popolazioni non bianche. Forse la più nota è quella di Viracocha, che secondo gli Incas portò la civiltà in Perù: egli era descritto come un uomo dalla carnagione chiara, con capelli e barba biondi ed occhi azzurri; il suo corrispondente mesoamericano, Quetzalcoatl, aveva anch’egli caratteristiche europoidi. Molto lontano dalle Americhe, nell’arcipelago delle Maldive, circolavano racconti sul mitico popolo dei Redin, abili navigatori alti di statura, con la pelle chiara, i capelli castani e gli occhi azzurri. Gli stessi ambasciatori di Taprobane accennarono a genti di alta statura, con capelli rossi ed occhi azzurri, i Seri (che probabilmente non erano gli stessi Seri noti ai Romani – cioè gli odierni Cinesi – ma un popolo del Sudest asiatico).

Tutto ciò fa pensare ad un’antica civiltà marinara originatasi in Europa e in seguito diffusasi fino all’India e alle Americhe, già in declino all’epoca degli antichi Romani. Ma le tracce lasciate da questi navigatori alti e biondi non comprendono solo i racconti che li vedono protagonisti: quando nel 1768 l’esploratore francese Louis-Antoine de Bougainville sbarcò a Tahiti, in Polinesia, documentò la presenza di due tipi di indigeni, uno dei quali aveva caratteristiche fisiche indistinguibili da quelle degli Europei. Ed effettivamente, in diverse popolazioni dell’Oceania e del Sudest asiatico (fra cui i Polinesiani e i Dayak) sono riscontrabili tratti “caucasici”, indice di una loro probabile mescolanza con popolazioni bianche. Facciamo notare, inoltre, che presso i Melanesiani capelli biondi ed occhi azzurri sono insolitamente comuni (sebbene ufficialmente questi tratti abbiano un’origine indipendente).

Ragazze Dayak: i tratti europoidi sono evidenti, specialmente nella seconda. Da qui.

Ma da dove proveniva questo popolo di navigatori? È ancora una volta Plinio a fornirci un prezioso indizio: “[a Taprobane] le navi hanno due prore, così da non aver bisogno di virare di bordo quando si trovano in canali particolarmente angusti… I marinai usano portare sulle navi degli uccelli, che lasciano spesso liberi, seguendo poi il loro volo verso terra”. Ora, un simile impiego degli uccelli nella navigazione era tipico dei Vichinghi! E tipiche dei Vichinghi (nonché degli Achei omerici, loro precursori) erano anche le navi a doppia prua… Ecco quindi che il quadro comincia a delinearsi: la civiltà che stiamo cercando si era sviluppata in Nord Europa (dove, molti secoli dopo, avrebbe dato origine alla civiltà vichinga) prima di diffondersi fino all’altro capo del mondo (forse passando attraverso l’Oceano Artico, che molti millenni fa era privo di ghiacci).

La provenienza nordeuropea dei colonizzatori di Asia e Oceania è suggerita anche da alcuni miti delle popolazioni locali. Come fa notare Felice Vinci, infatti, in Polinesia esistono racconti straordinariamente simili a quelli omerici, la cui origine va ricercata appunto nell’Europa settentrionale. Presso i Batak di Sumatra, invece, troviamo la descrizione di un albero cosmico che ricorda da vicino il frassino Yggdrasill della mitologia nordica; non manca neppure la divisione del cosmo in un mondo celeste abitato dagli dèi, in un mondo di mezzo sede degli uomini e in un mondo infero dove si trova un dragone, anch’essa analoga a quella norrena. Inoltre, la bandiera dei Batak ha come colori il rosso, il bianco e il nero, gli stessi delle tre caste indoeuropee!

Ma non è finita: forse siamo in grado anche di dare un nome a questi grandi navigatori. È ancora una volta Felice Vinci a suggerircelo: nel libro I Misteri della Civiltà Megalitica, infatti, egli fa notare che la località omerica nota come “capo Malea” (nella sua ricostruzione, corrispondente al capo Sandhammaren in Svezia) nel testo greco è chiamata “l’altura scoscesa dei Malei”. Egli ipotizza perciò che questi Malei fossero un antico popolo marinaro, già in declino ai tempi di Omero, in cui il dominio del Baltico era ormai in mano agli Achei e quello dell’Atlantico ai Feaci. Che il declino dei Malei sia stato dovuto alla loro migrazione in massa verso altri lidi? In effetti, il loro nome sembra risuonare in luoghi ben lontani dalla Scandinavia: basti pensare alla Malesia, alle Molucche (chiamate Maluku in indonesiano), alle Maldive (e alla loro capitale, Malè), al monte Malea/Melawi nel Borneo, alla tribù Dayak dei Maloh, e così via.

Sicuramente c’è ancora molto da scoprire su questi argomenti: come abbiamo visto, però, la storia di luoghi lontani ed “esotici” è molto più avvincente di quanto appare a prima vista, e custodisce molti segreti anche sul passato dei popoli europei.

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