Fin Dove Giunsero i Romani?

Un’antilope africana viene caricata su una nave romana. Particolare da un mosaico del IV secolo d.C. Da qui.

Man mano che la ricerca storica prosegue, appare sempre più evidente che il mondo antico era molto più interconnesso di quanto immaginavamo. Lo abbiamo visto con gli Egizi: tracce della loro presenza si rinvengono anche in luoghi molto lontani dalla valle del Nilo (Americhe, Australia, Polinesia…). Ma che dire dei Romani? Che i loro domini fossero molto ampi è cosa nota; eppure, tracce del loro passaggio sono state ritrovate anche ben oltre i confini dell’Impero. Alcuni di questi ritrovamenti sono ben noti, mentre altri, nonostante la loro rilevanza, sono pressoché sconosciuti. Cercheremo quindi di passare in rassegna anche e soprattutto questi ultimi: se pensate che questo sia il solito articolo sull’ananas di Pompei, vi sbagliate!

Romani in Nord Europa

Cominciamo dal Nord Europa, da dove peraltro provenivano gli antenati dei Romani. Sappiamo già che le conquiste romane si spinsero fino alla Britannia: l’antico limes è ancor oggi testimoniato dal vallo di Adriano, costruito a partire dal 122 d.C. e non lontano dall’odierno confine tra Inghilterra e Scozia. Una seconda muraglia (molto meno conservata), il vallo di Antonino, fu realizzata tra il 142 e il 144 d.C. e si trova circa 160 km più a nord.

Ma fu questo il punto più settentrionale raggiunto dai Romani? Pare di no: negli anni Ottanta, infatti, furono rinvenuti i resti di un forte romano nei pressi di Cawdor, in Scozia. La struttura risalirebbe alla seconda metà del I secolo d.C., quando Giulio Agricola era governatore della Britannia. Più precisamente, la sua costruzione potrebbe essere di poco successiva alla battaglia del monte Graupio (83 d.C.), che vide contrapporsi Romani e Caledoni. Pare, tuttavia, che il forte fu abbandonato dopo poco tempo, forse in seguito al ritiro di Agricola dalla Britannia nell’85 d.C.

Ma le tracce dei Romani in Nord Europa non sono limitate alle isole britanniche: ne troviamo diverse anche in Scandinavia! I Romani conoscevano la penisola scandinava, che ritenevano un’enorme isola; tuttavia, una loro presenza in questi luoghi è sconosciuta alla storia. Eppure, alcuni recenti ed eccezionali ritrovamenti archeologici sembrerebbero indicare che i Romani giunsero anche qui…

La Norvegia è stata sede di diversi ritrovamenti di questo genere: nel 2019, per esempio, in un tumulo funerario a Gylland è stata rinvenuta un’urna funeraria in bronzo di fabbricazione romana, datata al 150-300 d.C. Nel 2020, a Ytre Fosse (situato lungo un’antica rotta commerciale), da una sepoltura datata al 300 d.C., sono stati portati alla luce 19 pezzi di un gioco da tavolo romano, il ludus latrunculorum. Ancora più recente (aprile 2022, anche se la scoperta risale al 2019) è la notizia del ritrovamento di un sandalo di foggia romana, anch’esso probabilmente risalente all’epoca tardoimperiale (200-500 d.C.), in un valico di montagna norvegese, a 2000 metri di altitudine. Queste scoperte, tuttavia, sono rimaste pressoché sconosciute al grande pubblico.

Poco noti, eppure incredibilmente numerosi, sono anche i ritrovamenti di monete romane nei Paesi baltici: in Svezia, per esempio, sono stati rinvenuti circa 8000 denari romani, di cui ben 7000 nella sola isola di Gotland, dove, curiosamente, si trova una città di nome Roma…  Altre monete romane sono state ritrovate in Estonia e nel Baltico sudorientale, dove è facile ricollegare la loro presenza al commercio dell’ambra.

A sinistra, mappa dei denari romani rinvenuti in Svezia; a destra, particolare dell’isola di Gotland. Da Lind (2013).

Ma non è finita qui: se infatti dal Baltico ci spostiamo nell’Atlantico settentrionale, troviamo alcune monete romane perfino in Islanda! È probabile che l’Islanda fosse conosciuta dai Romani con il nome di Thule; tuttavia, dato che fino al IX secolo l’isola era disabitata, viene da chiedersi come abbiano fatto queste monete (cinque in tutto) a finire lì. La spiegazione più convincente è che siano stati i colonizzatori vichinghi a portarcele, forse usandole per le transazioni (sebbene fuori corso da secoli, il bronzo di cui erano composte aveva comunque un suo valore). È significativo, peraltro, che le monete rinvenute in Islanda risalgano tutte al III secolo: ciò fa pensare che facessero parte di un unico “gruzzolo”, forse in origine conservato (e in seguito ritrovato da qualche vichingo) proprio in Scandinavia, dove, come abbiamo visto, le monete romane abbondano.

Romani in Cina

Spostiamoci adesso dal Nord Europa all’Asia, più precisamente in Cina. I Romani avevano un’idea piuttosto vaga dell’Estremo Oriente; tuttavia, con esso intrattennero relazioni commerciali per secoli, come testimoniano i reperti romani rinvenuti in Cina. Tra questi reperti vi sono ad esempio gli oggetti in vetro, alcuni dei quali sono stati ritrovati anche in Corea e in Giappone. Può darsi che alcuni di questi oggetti abbiano raggiunto la Cina per via marittima: come vedremo più avanti, infatti, alcune prove mostrano che i Romani raggiunsero il Sudest asiatico oltrepassando lo stretto di Malacca.

Ma il collegamento più famoso (nonché più controverso) tra Roma e la Cina è senza dubbio la città cinese di Liqian. Nel 1941, infatti, lo storico Homer Dubs ipotizzò che a Liqian si fossero stabiliti dei legionari romani reduci dalla battaglia di Carre (53 a.C.), tra Romani e Parti. I Parti, sconfitti i Romani, avrebbero deportato 10.000 legionari verso il confine orientale; da qui, in seguito ad un’ulteriore deportazione da parte dei Cinesi, alcuni di essi sarebbero giunti a Liqian.

Ma quali sono gli elementi a supporto di questa ricostruzione? Il primo (che però potrebbe essere una semplice coincidenza) è il nome stesso di Liqian, che ricorda la parola “legione” (legio in latino). Il secondo è un passo degli annali della dinastia cinese Han, secondo cui nel 36 a.C., in occasione di una battaglia contro gli Xiongnu (un popolo nomade delle steppe), i Cinesi avrebbero combattuto contro una “formazione a squame di pesce”. Come non pensare alla testuggine romana? Dubs ipotizzò che alcuni dei legionari romani si fossero arruolati nelle file dei nomadi come mercenari. Secondo Dubs, inoltre, la seconda deportazione dei legionari avvenne in seguito a quest’ultima battaglia, vinta dai Cinesi.

Un terzo elemento a sostegno della ricostruzione di Dubs consiste nei tratti somatici degli abitanti di Liqian, in parte asiatici e in parte caucasici. È anche possibile, tuttavia, che i lineamenti caucasici risalgano ad incroci dei locali con altre popolazioni indoeuropee, non necessariamente con i legionari romani. Un’analisi del DNA effettuata nel 2007 ha mostrato che la popolazione di Liqian è geneticamente affine al resto della popolazione cinese; i ricercatori, in virtù di questi risultati, hanno concluso che “un’origine romana della popolazione di Liqian è probabilmente nulla più che un’interessante teoria”. Forse – ammettiamolo – troppo interessante per non lasciare ancora aperto uno spiraglio alla possibilità che sia corretta…

Alcuni abitanti di Liqian, dagli evidenti lineamenti “misti”. Da qui.

Romani in Africa

È noto che l’Impero Romano comprendeva anche tutti i territori africani affacciati sul Mediterraneo, dal Marocco fino all’Egitto. Tuttavia, le esplorazioni romane si spinsero ben oltre, fino a giungere nel cuore del continente nero.

Sono documentate diverse esplorazioni nell’Africa subsahariana, a scopo principalmente commerciale: la prima fu quella di Cornelio Balbo del 19 a.C., che partendo dalla Libia giunse fino al fiume Niger, non lontano dall’odierna Timbuctù. Intorno al 70 d.C. un’altra spedizione, guidata da un certo Festo (comandante di una legione) raggiunse probabilmente gli stessi luoghi. Nel 41 d.C. Svetonio Paolino marciò con dei legionari lungo il Sahara occidentale, arrivando forse non lontano dal fiume Senegal. Altre due esplorazioni, nel 50 e nel 90 d.C. circa, attraversarono il Sahara centrale raggiungendo il lago Ciad. Giulio Materno, che guidò quest’ultima spedizione, tornò a Roma portando un rinoceronte con due corna (forse un rinoceronte nero), che fu esposto al Colosseo; l’imperatore Domiziano ne rimase così impressionato che fece coniare una moneta con l’effigie dell’animale.

Quadrante fatto coniare da Domiziano intorno al 90 d.C. per commemorare il rinoceronte importato per la prima volta a Roma, in seguito alla spedizione in Africa di Giulio Materno. Da qui.

Un’altra importante spedizione romana in Africa fu quella organizzata da Nerone intorno al 61 d.C., diretta verso le sorgenti del Nilo; pare che uno dei motivi dell’esplorazione fosse la conquista dell’Etiopia (cioè la regione a sud dell’Egitto). Non è chiaro fin dove si spinsero gli esploratori romani: Seneca (Questioni Naturali, VI, 8, 4) riporta le parole di due centurioni che parteciparono alla spedizione, che ad un certo punto del percorso avrebbero visto “due rocce, dalle quali la forza del fiume fuoriusciva con potenza”. Ciò indica che la spedizione potrebbe aver raggiunto le cascate Murchison in Uganda, anche se alcuni studiosi dubitano di ciò.

I Romani effettuarono anche esplorazioni marittime lungo le coste dell’Africa occidentale. Anche in questo caso, non è facile stabilire fin dove si spinsero: di certo conoscevano, oltre alle Canarie, le isole di Capo Verde, con il nome di Gorgadi; tuttavia, è difficile dimostrare che si avventurarono ancora più a sud. Monete romane sono state ritrovate in diversi Paesi affacciati sul Golfo di Guinea, come la Nigeria, il Togo e il Ghana; trattandosi però di reperti molto rari, a cui non si accompagnano ulteriori riscontri archeologici, non si può stabilire con certezza se vi giunsero in epoca romana o in un periodo successivo.

E le coste orientali dell’Africa? In epoca romana la regione a sud del Corno d’Africa era conosciuta con il nome di Azania; il Periplo del Mar Eritreo (scritto intorno alla metà del I secolo d.C., forse da un mercante dell’Egitto romano) e la Geografia di Tolomeo nominano diverse località dislocate lungo la costa, fino a Rhapta, la più meridionale. Secondo il Periplo, da Rhapta venivano importati avorio, corna di rinoceronte, gusci di tartaruga ed olio di palma. Probabilmente fu questo il punto più meridionale del continente africano toccato dai Romani: il Periplo afferma che “al di là di questi luoghi l’oceano inesplorato curva verso ovest, e costeggiando le regioni a sud dell’Etiopia, della Libia e dell’Africa, si mescola con il mare occidentale” (capitolo 18). Che l’Oceano Indiano e l’Oceano Atlantico comunicassero era già noto ai tempi di Erodoto, il quale documenta la circumnavigazione dell’Africa compiuta dai Fenici (Storie, IV, 42).

La posizione precisa di Rhapta è dibattuta: Tolomeo le assegna una latitudine di 7° sud, il che la collocherebbe sulle coste dell’odierna Tanzania, non lontano da Zanzibar. Una delle ipotesi più plausibili è che Rhapta si trovasse presso la foce del fiume Rufiji: là, infatti, sono state ritrovate delle perline di vetro di fattura romana. Non solo: nelle acque della prospiciente isola di Mafia, un subacqueo ha scoperto nel 2016 i resti di un’antica città sommersa, che secondo l’archeologo tanzaniano Felix Chami potrebbe corrispondere ad un insediamento romano. Anche alcuni resti di ceramica trovati in loco potrebbero avere un’origine romana.

Romani in India

La presenza di porti romani affacciati sull’Oceano Indiano ci dà lo spunto per parlare dei viaggi dei Romani verso l’India e il Sudest asiatico. I Romani, ovviamente, conoscevano l’India, con cui intrattennero relazioni commerciali a partire dal regno di Augusto (27 a.C.-14 d.C.). Secondo il Periplo, tra le merci importate dall’India vi erano avorio, perle, pietre preziose, pepe, stoffe, gusci di tartaruga; tra quelle esportate, vini, metalli (rame, stagno, piombo), corallo, vetro grezzo, indumenti; avvenivano anche scambi di monete.

In India, e in particolare nell’India meridionale, sono stati ritrovati moltissimi reperti archeologici di origine romana. Ciò non sorprende, visti i fitti scambi commerciali con l’Impero. Ma è possibile che vi fossero anche delle vere e proprie colonie romane? La Tabula Peutingeriana (una copia, risalente al XII-XIII secolo, di una mappa stradale romana) sembrerebbe dimostrarlo: in corrispondenza della città di Muziris (citata anche nel Periplo), situata nell’India meridionale, è raffigurato infatti un tempio romano dedicato ad Augusto. Inoltre, il Periplo (capitolo 56) afferma che là veniva importato “grano a sufficienza per i marinai”: poiché la dieta delle popolazioni locali era basata principalmente sul riso, il grano era probabilmente destinato ai marinai romani stabilitisi in quelle zone.

Particolare della Tabula Peutingeriana in cui è raffigurata l’India; nell’area ingrandita nell’inserto, si osserva presso la città di Muziris (India meridionale) un tempio romano dedicato ad Augusto.

Diverse prove indicano che i Romani si spinsero anche oltre l’India: nel precedente articolo avevamo visto come essi conoscessero, sotto il nome di Taprobane, il Borneo (poi tuttavia confuso con lo Sri Lanka). Plinio racconta che i Romani entrarono in contatto con gli abitanti dell’isola al tempo dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.), dopo che una nave romana, proveniente dall’Arabia, giunse fin là spinta da una tempesta. Ma tra l’Arabia e il Borneo la rotta è quasi sbarrata da Sumatra e dalla penisola di Malacca: forse, quindi, la nave che approdò sulle coste del Borneo aveva già oltrepassato lo stretto di Malacca; in caso contrario si sarebbe fermata prima. Ciò costituirebbe già un primo indizio che già nel I secolo d.C. i Romani frequentavano l’Indonesia e il Sudest asiatico.

Ma la presenza romana in queste zone è deducibile anche da altri riscontri, in primis archeologici. Monete romane sono venute alla luce in diverse isole dell’Indonesia, tra cui Sumatra e Giava. Ma è soprattutto l’Indocina a regalarci grandi soddisfazioni: qui infatti, in Vietnam, si trova un sito archeologico molto importante, Óc Eo. Secondo alcuni studiosi, Óc Eo potrebbe corrispondere all’antico porto di Cattigara menzionato da Tolomeo. Tra gli oggetti scoperti nel sito, rivestono particolare interesse monete e medaglioni d’oro risalenti ai regni di Antonino Pio (138-161 d.C.) e Marco Aurelio (161-180 d.C.).

Sempre in Indocina, sono da segnalare i ritrovamenti di lampade romane: una di esse, di bronzo, fu rinvenuta nel 1927 a Pong Tuk, un villaggio thailandese sulle rive del fiume Mae Klong. Secondo uno studio del 2008, il manufatto risalirebbe al V-VI secolo d.C., dunque al primo periodo bizantino. Un’altra lampada in terracotta, forse risalente al II secolo d.C., è stata ritrovata nel secolo scorso in un tempio ad Angkor Thom, in Cambogia.

La lampada romano-bizantina ritrovata a Pong Tuk, in Thailandia. Da Borell (2008).

Ma che ci facevano i Romani da queste parti? Con ogni probabilità, uno dei motivi principali era il commercio delle spezie, alcune delle quali (noce moscata, chiodi di garofano) sono originarie proprio dell’Indonesia. Come accennavamo prima, inoltre, probabilmente molte merci romane raggiunsero la Cina per via marittima. Alcuni annali cinesi testimoniano che tra il II e il III secolo d.C. i Romani inviarono in Cina delle ambasciate. Una di queste, giunta nel 166 d.C., portò in dono avorio, corna di rinoceronte e gusci di tartaruga, merci sicuramente acquistate in qualche porto dell’Oceano Indiano e in seguito trasportate in Estremo Oriente dalle navi romane.

Dall’Indonesia, infine, alcune navi romane potrebbero aver raggiunto (fortuitamente?) anche l’Oceania. Ciò è suggerito da alcuni ritrovamenti di monete romane in Nuova Zelanda (ebbene sì, anche lì).

Romani in America

Ma eccoci alla domanda delle domande: è possibile che i Romani siano arrivati anche in America? Il tema è stato già affrontato in maniera eloquente da altri studiosi (in primis il giornalista Elio Cadelo nei libri Quando i Romani andavano in America e L’Oceano degli Antichi) e meriterebbe senz’altro un articolo a parte; in questa sede ci limiteremo ad elencare soltanto gli indizi più significativi di una presenza romana nel Nuovo Mondo.

Partiamo dai famosissimi “ananas” che compaiono in alcune opere d’arte romane: uno di essi è raffigurato in un mosaico scoperto nel 1979 a Grotte Celoni (Roma), datato al I secolo a.C./d.C.; un altro si trova in un affresco della Casa dell’Efebo a Pompei. In entrambi i casi, la somiglianza con il frutto originario del Sud America (introdotto in Europa solo nel XVII secolo) è notevole, mentre lo è molto meno quella con la pigna, che di certo non possiede un ciuffo di foglie ad un’estremità!

Gli “ananas” romani: a sinistra, il mosaico di Grotte Celoni; a destra, l’affresco di Casa dell’Efebo. Negli inserti, particolare dei due ananas.

Un altro indizio di scambi tra le due sponde dell’Atlantico in epoca romana ci è fornito da Plinio. Nella sua Storia Naturale (XVIII, 55), infatti, lo storico descrive un “miglio” le cui caratteristiche ricordano molto da vicino il mais. Queste caratteristiche includono i grossi chicchi di colore nero (uno dei colori del mais), lo stelo “simile ad una canna”, le lunghe “chiome” (forse la barba del mais) ed altre ancora. Secondo Plinio questo “miglio”, introdotto ai suoi tempi, proveniva dall’India. Ma davvero si trattava dell’India? Oppure i Romani giunti in America avevano scambiato il nuovo continente per l’India, come sarebbe accaduto secoli dopo?

Nelle opere d’arte romane non mancano neppure raffigurazioni di animali tipici del Nuovo Mondo: un affresco scoperto a Londra, datato alla seconda metà del I secolo d.C., rappresenta infatti due pappagalli identificabili con delle are, originarie dell’America centromeridionale.

Fin qui abbiamo visto ciò che i Romani potrebbero aver importato dalle Americhe. Vediamo adesso le tracce che avrebbero lasciato sul continente al di là dell’oceano.

Dato che, dall’apertura dello stretto di Bering 12.000 anni fa all’invenzione dell’aeroplano nel XX secolo, l’unico modo per raggiungere l’America era per via marittima, la prima prova da ricercare per stabilire se i Romani effettivamente giunsero in America è la presenza di relitti di navi romane lungo le coste americane. Ebbene, la ricerca non ci lascia delusi: esistono, infatti, due interessanti scoperte in merito.

La prima di queste scoperte, avvenuta in Brasile, risale ad una quarantina di anni fa. Verso la fine degli anni Settanta, nella Baia di Guanabara, presso Rio de Janeiro, alcuni subacquei recuperarono dei vasi che gli archeologi identificarono come anfore romane. Nel 1982 Robert Marx, archeologo e cacciatore di tesori, venuto al corrente di questi ritrovamenti, eseguì una serie di immersioni per far luce sulla questione. Scoprì così decine di anfore, alcune ancora perfettamente conservate! Purtroppo, il governo brasiliano insabbiò la scoperta e impedì ulteriori ricerche, per cui Marx non riuscì a scoprire alcun relitto; tuttavia, una tale quantità di anfore poteva provenire solo da una nave romana naufragata in quelle acque.

Robert Marx con due anfore romane recuperate nelle acque brasiliane. Da qui.

Un altro ritrovamento di questo genere, questa volta in Nord America, risale al 1886. Nella Baia di Galveston, in Texas, fu rinvenuto un antico relitto, che il professore texano di origini italiane Valentine Belfiglio ha identificato come una nave romana. Secondo lui, i Romani avrebbero appreso le tecniche per costruire navi capaci di solcare l’oceano dai Veneti che abitavano in Bretagna.

Belfiglio ha raccolto anche altri indizi di una presenza romana in Texas: tra queste, i resti di un antico ponte nella Baia di Galveston e alcune affinità linguistiche tra il latino e la lingua dei Karankawa, una tribù di nativi americani (oggi estinta) che abitava quelle zone. I Karankawa, in base ad alcune testimonianze, avevano un’alta statura e una carnagione più chiara rispetto a quella delle tribù vicine. Tuttavia, a mio avviso i parallelismi linguistici evidenziati da Belfiglio sono inconsistenti.

Un’altra scoperta molto interessante fatta sul suolo americano risale al 1933. In quell’anno, l’archeologo messicano José García Payón ritrovò una testa scolpita in una sepoltura azteca a Calixtlahuaca, in Messico. La scultura raffigurava un uomo barbuto, dunque certamente non un nativo americano. L’antropologo austriaco Robert Heine-Geldern, esaminatala, la ritenne un’opera della scuola ellenistico-romana, databile al 200 d.C. circa (data poi condivisa da altri studiosi). La sepoltura in cui fu rinvenuta era pre-ispanica, il che rende difficile sostenere che furono gli Spagnoli a portarla in America.

Ma potevano mancare i ritrovamenti di monete romane? Certo che no: il loro numero non è scarso, anche se purtroppo molti ritrovamenti non sono documentati a sufficienza. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, rimando a questa ottima rassegna.

Tutti questi reperti, nel loro insieme, rafforzano (ma forse potremmo spingerci a dire dimostrano) l’ipotesi di un arrivo dei Romani in America. Probabilmente il “contatto” non fu né fortuito né isolato, anche se la presenza di colonie romane nel Nuovo Mondo è difficile da dimostrare. Ad ogni modo, “unendo i puntini” comincia a delinearsi una storia sempre più affascinante e complessa, che – ci auguriamo – potrà presto essere fedelmente ricostruita.

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