La Storia Segreta delle Epidemie

Un vescovo benedice dei chierici malati. Miniatura dall’Omne Bonum di James le Palmer (XIV secolo).

Recentemente sul mio canale YouTube sono stati pubblicati cinque brevi video sul tema delle epidemie. Lo scopo di questi video era far luce sugli aspetti meno noti e più controversi della storia di certe malattie (nello specifico il vaiolo, la poliomielite, la peste, il morbillo e l’influenza). Una storia che, spesso, è ben diversa da come ci è stata raccontata.

Ritengo questo argomento estremamente importante: la storia delle epidemie, se riportata senza filtri, ci mostra infatti come i più grandi nemici della salute umana siano stati non i germi, bensì la scarsa igiene, la malnutrizione e l’inquinamento chimico ed elettromagnetico. Si comprende allora quanto insensata e deleteria sia stata (e sia tuttora!) la “guerra ai microbi”, ritenuti – a torto – forieri di ogni male. Vengono a cadere anche tanti falsi miti come l’eradicazione del vaiolo, l’incurabilità della polio, la trasmissibilità dell’influenza e così via.

Rimando dunque i lettori al mio canale; chi avesse già visto i video e/o fosse interessato alle fonti di certe informazioni, può proseguire la lettura di quest’articolo.

Il vaiolo

Il vaiolo è una malattia molto antica: la prima vittima documentata sarebbe il faraone Ramses V, morto nel 1145 a.C. La peste antonina, che flagellò l’Impero Romano a ondate tra il 165 e il 180 d.C., fu probabilmente un’epidemia di vaiolo. Nel corso del Medioevo, il vaiolo diventò endemico in Europa; in seguito ai grandi viaggi di esplorazione e conquista si diffuse anche nelle Americhe. Continuò quindi a imperversare per diversi secoli, fin quando nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità non lo dichiarò eradicato dalla faccia della terra.

Due pagine di un libro giapponese sul vaiolo del XVIII secolo. Da qui.

Secondo la leggenda (poiché di questo si tratta), l’eradicazione del vaiolo fu possibile solo grazie alla vaccinazione, avviata nel 1796 dal medico britannico Edward Jenner. Quello di Jenner, in realtà, non fu il primo tentativo di immunizzazione: pratiche analoghe come la variolizzazione esistevano già da secoli in diverse parti del mondo. L’idea di Jenner (forse non sua, a dire il vero) fu di usare per l’immunizzazione materiale ricavato da pustole di vaiolo vaccino, cioè bovino (onde il termine “vaccino”, in seguito esteso a tutti i preparati immunogeni), anziché di vaiolo umano. Apparentemente, infatti, il vaiolo bovino, più lieve di quello umano, poteva conferire immunità verso quest’ultimo agli esseri umani che lo contraevano.

Tra il 1796 e il 1978, anno in cui si registrò l’ultimo caso di vaiolo, sono trascorsi ben 182 anni. Cos’è successo in tutto questo tempo? Perché nessuno ne parla? Fortunatamente, la dottoressa Suzanne Humphries e l’ingegner Roman Bystrianyk, nel loro libro Malattie, Vaccini e la Storia Dimenticata (qui il sito web, con le immagini e i grafici tratti dal libro) hanno colmato questa lacuna, mostrando come la battaglia contro il vaiolo fu ben diversa da come ci è stata raccontata.

Vaccini contaminati, epidemie di vaiolo in popolazioni con copertura vaccinale altissima, rivolte popolari contro la vaccinazione obbligatoria… Tutto questo e molto altro fa parte della storia dimenticata delle vaccinazioni, che copre tutto il XIX secolo e anche parte del XX. Il caso più emblematico fu quello della cittadina di Leicester, in Inghilterra: là, nel 1885, si svolse una grande manifestazione contro l’obbligo vaccinale, che in seguito venne abolito. Il risultato? La copertura vaccinale si ridusse moltissimo, eppure il vaiolo non tornò più. Il “metodo Leicester”, che prevedeva la quarantena dei malati seguita dalla disinfezione della casa, si rivelò ben più efficace dei vaccini nel combattere il vaiolo.

Mortalità per vaiolo a Leicester, in Inghilterra, confrontato con la copertura vaccinale. Si nota come una più alta copertura è associata ad un tasso di mortalità maggiore. Da qui.

Un altro aspetto controverso della storia del vaiolo è quello della sua trasmissibilità. È una credenza comune che il vaiolo fosse molto contagioso, e che potesse trasmettersi anche attraverso gli oggetti venuti a contatto col malato. Tuttavia, nei primi del ‘900 il dottor Charles Campbell eseguì diversi esperimenti che suggerirono esattamente il contrario, e cioè che il vaiolo non fosse affatto trasmissibile da persona a persona.

Il dr. Campbell espose ripetutamente se stesso ed altre persone al contagio: in un esperimento, batté un tappeto di una stanza da dove era stato appena prelevato un malato di vaiolo, in modo da inalare la polvere; un’altra volta, permise ad una bambina non vaccinata di giocare con un bimbo ricoperto di pustole; in un altro caso, fece accomodare un soggetto (anch’esso non vaccinato) su un letto precedentemente occupato da un malato di vaiolo, senza prima cambiare la biancheria. Sebbene né il dr. Campbell né le altre persone fossero immuni al vaiolo, nessuno di loro contrasse la malattia. Questi e altri esperimenti sono descritti qui.

Qual era dunque la causa del vaiolo, e perché appariva come una malattia contagiosa? Secondo il dr. Campbell, la malattia poteva essere trasmessa dalle cimici dei letti: egli infatti trovò sempre questi insetti nelle case dei malati di vaiolo, e notò che se un malato veniva collocato in una casa dove le cimici non erano presenti, non trasmetteva la malattia alle persone che vivevano con lui. È chiaro che la sua ipotesi meriterebbe ulteriori indagini: è curioso, comunque, che negli Stati Uniti il forte calo dei casi di vaiolo e l’eradicazione delle cimici dei letti siano avvenuti entrambi a partire dagli anni ’40…

Ma il vaiolo è stato davvero eradicato? Beh, sembrerebbe proprio di no: ancora oggi, infatti, esiste il vaiolo delle scimmie, ufficialmente causato da un virus differente, ma clinicamente indistinguibile dal vaiolo umano. Recentemente, casi di “vaiolo delle scimmie” sono stati registrati in Cina, negli Stati Uniti e in Europa. Ma si sa, a volte basta semplicemente cambiare nome alle cose per farle scomparire…

A sinistra, vaiolo delle scimmie; a destra, vaiolo umano. Davvero simili, non è vero? Da qui.

La poliomielite

Il termine “poliomielite” indica un’infiammazione a carico del midollo spinale (mielite), e precisamente della sostanza grigia (polios, “grigio” in greco), dove si trovano i corpi cellulari dei neuroni motori. La malattia (ormai scomparsa in Occidente) colpiva quasi esclusivamente i bambini e causava paralisi transitorie che, se non adeguatamente trattate, potevano diventare permanenti o provocare deformità.

A differenza del vaiolo, la polio è una malattia relativamente recente: sebbene alcune antiche raffigurazioni egiziane e greche suggeriscano la sua esistenza già a quei tempi, la prima descrizione clinica risale al 1789 e si deve al medico britannico Michael Underwood (che la presenta appunto come una malattia nuova, fino ad allora sconosciuta).

Per tutto il XIX secolo, la polio rimase una malattia relativamente rara. Nella mappa sottostante, che mostra i casi registrati negli Stati Uniti nel 1910, si può notare che in alcuni Stati era addirittura assente! I casi aumentarono nei decenni successivi ed ebbero un’impennata enorme a partire dagli anni ’40, per poi ridursi fino a scomparire dopo l’introduzione dei vaccini, tra gli anni ’50 e ’60. Ma perché, a differenza delle altre malattie infettive, la polio esplose soltanto nel Novecento? Cosa accadde di preciso?

Casi di “paralisi infantile” riportati negli Stati Uniti nel 1910. Da qui.

Secondo la teoria ufficiale, l’agente causale della poliomielite sarebbe un virus, il poliovirus appunto. Tuttavia, una ricerca pubblicata nel 1964, condotta sulla tribù amazzonica degli Xavante, ha mostrato che praticamente tutti gli individui della tribù avevano anticorpi contro il virus, senza che alcuno avesse mai sviluppato la polio. Ma che strano… Non sarà che la causa della malattia dev’essere ricercata in qualcos’altro?

Non è un mistero che le sindromi paralitiche possano avere numerose cause: tra queste, infezioni da parassiti, punture di zecche, morsi di serpente ed esposizione a sostanze chimiche come l’arsenico e gli organofosfati. Probabilmente non è un caso che la prima epidemia di polio negli Stati Uniti, verificatasi in Vermont nel 1894, seguì di poco l’introduzione di un nuovo pesticida, l’arseniato di piombo, avvenuta nel 1892 in Massachusetts (confinante col Vermont). In Europa, l’arsenico era già stato impiegato in tinture e insetticidi per tutto il XVIII secolo; la sua ulteriore diffusione non poté che peggiorare le cose.

La situazione si aggravò ancora di più con l’avvento del DDT, negli anni ’40. Il DDT provocava la degenerazione dei motoneuroni spinali, dando luogo ad alterazioni istologiche identiche a quelle osservate nella poliomielite. Nel grafico riportato qua sotto, riferito agli Stati Uniti, si osserva un’evidente correlazione tra l’incidenza della polio e la produzione di pesticidi. Anche in Italia, dove la polio era pressoché sconosciuta fino agli anni ’20, l’incidenza aumentò in seguito all’uso massiccio di pesticidi per combattere la malaria. La malattia scomparve pochi anni dopo la messa al bando del DDT: in USA, infatti, l’ultimo caso di polio fu registrato nel 1979 (DDT bandito nel 1972), mentre in Italia nel 1982 (DDT bandito nel 1978).

Incidenza della polio negli Stati Uniti, confrontata con la produzione di pesticidi. La correlazione è evidente. Da qui.

Viene da chiedersi, a questo punto, quale ruolo abbiano avuto i vaccini nella scomparsa della polio. Ed è facile darsi la risposta: nessuno. Quando iniziò la vaccinazione di massa, la mortalità della polio si era già ridotta di circa il 50% in trent’anni; la successiva riduzione dei casi fu dovuta soprattutto al cambiamento dei criteri diagnostici (Miller, 2004). Questo vale, ovviamente, anche per la recente “eradicazione” della polio in India (dove il DDT è ancora ampiamente usato): tutto ciò che prima era “polio” adesso ricade sotto l’etichetta di “paralisi flaccida acuta”. Per chi fosse interessato a ulteriori dettagli sulla storia dei vaccini antipolio, rimando al libro di Humphries e Bystrianyk, che tratta l’argomento con dovizia di particolari.

L’idea che la poliomielite fosse incurabile è un altro falso mito. Per quanto riguarda le paralisi, i trattamenti inizialmente impiegati, che spesso prevedevano l’immobilizzazione degli arti, recavano più danni che benefici: con l’introduzione della fisioterapia ad opera dell’infermiera australiana Elizabeth Kenny, molti pazienti riuscirono a recuperare una completa mobilità. Per quanto riguarda invece la cura della malattia nella sua fase acuta, il dottor Frederick Klenner ottenne ottimi risultati con la somministrazione per via endovenosa di dosi massicce di vitamina C, non solo con la polio ma anche con altre malattie (qui una delle sue pubblicazioni).

La peste

La peste è annoverata, a buon diritto, tra i più grandi flagelli della storia. Secondo alcune stime, la peste nera del Trecento spazzò via dal 30 al 60% della popolazione europea del tempo (ossia 25-50 milioni di persone). La peste nera tornò a colpire l’Europa nei secoli successivi, a ondate; intorno al 1630 interessò il Nord Italia (la cosiddetta “peste manzoniana”, citata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi) e nel 1665-1666 Londra, dove sterminò un quinto della popolazione. Oltre alla peste nera, gli ultimi due millenni hanno registrato altre due pandemie, una intorno al 540 (peste di Giustiniano) e una alla fine del XIX secolo, che riguardò soprattutto l’Indocina.

E fu proprio in occasione di quest’ultima ondata, per la precisione nel 1894, che fu identificato l’agente causale della malattia, il bacillo Yersinia pestis (chiamato così in onore del suo scopritore, il medico svizzero Alexandre Yersin). Qualche anno dopo, nel 1898, fu osservato che la pulce del ratto poteva fungere da vettore per il batterio, che in questo modo veniva trasmesso da un animale all’altro e dall’animale all’uomo. Queste scoperte (di cui trovate qui un resoconto più approfondito) portarono in seguito allo sviluppo di terapie antibiotiche.

Un medico cura una famiglia ammalata di peste, in un affresco del XV secolo (Villard-de-Lans, Cappella di San Sebastiano). Da qui.

Fu dunque lo Yersinia pestis il responsabile della più disastrosa epidemia della storia? In realtà, se studiamo attentamente le epidemie più antiche, ci rendiamo conto che diversi elementi sono in contrasto con questa ipotesi. Innanzitutto, la peste nera ebbe una diffusione sorprendentemente rapida, assai più veloce della peste moderna. Inoltre, la stagionalità era diversa e la mortalità molto più elevata. Tra le differenze cliniche c’era anche la diversa distribuzione dei bubboni. Emblematico, poi, è il caso dell’Islanda, dove l’epidemia si diffuse nel XV secolo anche se all’epoca sull’isola non c’erano ratti!

Che dire però della “prova del DNA”? A partire dal 1998, diversi studi (per esempio questo, questo e quest’altro) hanno riferito il ritrovamento di DNA di Yersinia pestis in scheletri di soggetti presumibilmente morti di peste. Tuttavia, è noto che in queste analisi il rischio di imbattersi in falsi positivi è molto alto; peraltro, in un altro studio i ricercatori hanno analizzato ben 108 denti di 61 presunte vittime di peste, senza trovare alcuna traccia del batterio incriminato.

Ma cos’altro potrebbe aver causato le grandi ondate epidemiche del passato? Ebbene, sembra che la causa sia da ricercare fuori dal nostro pianeta. Questa ipotesi è stata proposta dal professor Mike Baillie nel libro New Light on the Black Death: The Cosmic Connection. Esaminando gli anelli dei tronchi d’albero risalenti all’epoca della peste nera e della peste di Giustiniano, e confrontandoli con i sedimenti delle calotte glaciali della stessa epoca, egli ha individuato tracce del passaggio (e forse dell’impatto), in quel periodo, di una cometa.

Ma cosa c’entrano le comete con le epidemie? Non è necessario chiamare in causa improbabili “germi extraterrestri”: ad avere conseguenze nocive per la salute sarebbero state le polveri diffuse nell’atmosfera e le radiazioni ionizzanti prodotte dalla cometa in prossimità del Sole. Passaggi ravvicinati di comete si ebbero non solo in occasione della peste nera, ma anche, per esempio, nel 1664-1665, prima della peste di Londra. Forse non è un caso che le comete, da sempre, siano considerate foriere di eventi nefasti…

Immagine tratta da una cronaca del 1513, che illustra il passaggio della cometa di Halley nel 1456. Il passaggio della cometa viene associato a malattie e carestie. Da qui.

Il morbillo

Fino a poche generazioni fa, il morbillo era una delle più comuni malattie esantematiche infantili; oggi (almeno in Occidente) è diventato piuttosto raro. Rispetto alle altre malattie discusse in questo articolo, il morbillo è praticamente innocuo, avendo esito fatale in meno di un caso su mille; va ricordato, tuttavia, che fino al XIX secolo (per motivi che saranno esaminati in seguito) la mortalità rimase piuttosto elevata.

La “sconfitta” del morbillo è attribuita, ovviamente, alle vaccinazioni di massa. Eppure, chiunque abbia dato un’occhiata alle statistiche in merito avrà certamente notato che prima dell’introduzione dei vaccini la mortalità per morbillo aveva già subito un calo impressionante. In Inghilterra, per esempio, il vaccino fu introdotto nel 1968, quando la mortalità si era già ridotta del 99,96% rispetto a 130 anni prima! In altre nazioni si osservarono situazioni analoghe.

Mortalità per morbillo negli Stati Uniti (1900-1987). Da qui.

Se la mortalità per morbillo era già bassissima quando furono introdotti i vaccini, è pur vero che i casi erano ancora piuttosto numerosi. In seguito alle vaccinazioni, anche i casi subirono una drastica riduzione. Tuttavia, come esposto nel libro di Humphries e Bystrianyk, le cose sono molto più complicate di come appaiono a prima vista…

Innanzitutto, prima dell’introduzione del vaccino anche l’incidenza del morbillo stava diminuendo, seppur più lentamente. In secondo luogo, come avvenuto per la polio, dopo il vaccino i criteri diagnostici si fecero più stringenti: i casi di morbillo post-vaccino, per esempio, non venivano conteggiati. Inoltre, il calo dei casi si verificò nonostante la copertura vaccinale fosse piuttosto bassa, e per giunta con un vaccino (quello a “virus inattivato”) che fu ritirato pochi anni dopo perché inefficace! Alla luce di tutto ciò, il ruolo del vaccino appare molto meno determinante. Rimando comunque al libro per ulteriori dettagli.

Si obietterà che i vaccini hanno evitato le gravi (anche se rare) complicazioni del morbillo: le principali erano l’encefalite, la polmonite e la cheratite (infiammazione della cornea, che può portare alla cecità). Queste complicazioni, in particolare la polmonite, affliggono ancora i Paesi in via di sviluppo, per un motivo abbastanza intuibile: la malnutrizione. Esiste ormai un’abbondante letteratura sul ruolo della vitamina A nella riduzione della mortalità e delle complicazioni del morbillo. Probabilmente è stato proprio il miglioramento delle condizioni nutrizionali a determinare il calo della mortalità per morbillo in Europa tra il XIX e il XX secolo.

La storia del morbillo in Europa merita un ulteriore approfondimento. Infatti, finora non abbiamo affrontato l’argomento della mortalità per morbillo prima del XIX secolo. Fortunatamente, molti dati storici sono conservati nei registri dei decessi di Londra, e sono riportati nel grafico qua sotto.

Mortalità per morbillo a Londra (1629-1902). Da qui.

È interessante notare che nel XVII secolo la mortalità per morbillo era piuttosto bassa; l’aumento avvenne soprattutto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, e non sembrerebbe spiegabile dal mero incremento nella popolazione. Ma allora quale potrebbe esserne la causa?

Questa ricerca individua due fattori correlati all’incremento della mortalità: uno di essi è un maggior prezzo del grano (e dunque una minore accessibilità, che facilita la malnutrizione); l’altro (correlato in particolare ai picchi epidemici) è una minore temperatura autunnale. Ciò dimostra, ancora una volta, quanto poco conti il “germe” rispetto al “terreno” nello sviluppo delle malattie.

L’influenza

Tutti noi conosciamo l’influenza, il tipico malanno della stagione invernale. La malattia è di solito innocua per i soggetti più giovani, ma potenzialmente pericolosa per gli anziani. Ad intervalli di tempo variabili, però, l’influenza si manifesta su scala epidemica o addirittura pandemica: nel secolo scorso le pandemie sono state tre, nel 1918-1920 (la cosiddetta “spagnola”, la più nota e letale), nel 1957-1960 (“asiatica”) e nel 1968-1969 (“di Hong Kong”).

Ma qual è la causa dell’influenza, e perché si verificano le pandemie? Secondo la teoria ortodossa, a provocare la malattia sarebbero tre ceppi differenti di virus, denominati A, B e C. Il più comune e pericoloso, responsabile delle pandemie, sarebbe il ceppo A. Le pandemie si verificherebbero in seguito a riassortimenti genetici del virus, che acquisirebbe nuove molecole di superficie alle quali nessun individuo è immune. In questo modo, il sistema immunitario non riuscirebbe a frenare l’avanzata del virus, che tramite le goccioline di saliva salterebbe da persona a persona, seminando dietro di sé morte e distruzione.

Tuttavia, ad un’analisi più attenta, questa teoria fa acqua da tutte le parti. Esaminiamo innanzitutto l’ipotesi della trasmissibilità dell’influenza. Nonostante la trasmissione del virus sia ritenuta molto facile, le evidenze in tal senso (se di evidenze si può parlare) sono pochissime. Durante l’influenza spagnola, furono eseguiti diversi esperimenti per verificare la contagiosità della malattia: in uno di questi, i ricercatori prelevarono le secrezioni nasofaringee di soggetti malati e le inserirono nel naso e nella gola di volontari sani; in un altro, i malati tossirono in faccia ai volontari. Il risultato? Nessuno dei volontari sviluppò l’influenza.

A ormai cent’anni di distanza, le conclusioni di questi esperimenti sono ancora ben lungi dall’essere rimesse in discussione. In un recente studio sperimentale su soggetti umani, la trasmissione del “virus” è risultata assai inferiore al previsto: solo uno dei 35 soggetti esposti e privi di protezione ha contratto l’infezione, peraltro senza manifestare sintomi di rilievo; ironicamente, altri soggetti erano sintomatici ma negativi al test per rilevare il virus.

Se dunque l’influenza non è contagiosa, cosa provoca le epidemie? Nel libro The Invisible Rainbow, il giornalista Arthur Firstenberg suggerisce che la causa di molte malattie (influenza inclusa) debba essere ricercata nell’elettromagnetismo. Effettivamente, le ultime pandemie sembrerebbero essere correlate a un aumento delle onde elettromagnetiche nell’ambiente: l’influenza “russa” (1889-1895) coincise con l’avvento della corrente alternata; la spagnola seguì l’installazione delle antenne radiofoniche; l’asiatica coincise con la diffusione del radar; e l’influenza di Hong Kong scoppiò dopo il lancio di satelliti artificiali per la comunicazione.

Che dire però delle epidemie più antiche? La prima pandemia influenzale storicamente documentata risale al 1510, quando della tecnologia moderna non esisteva neanche l’ombra. Inoltre, a cosa è dovuta la stagionalità dell’influenza?

Un resoconto dell’epidemia d’influenza del 1580. Da qui.

Una possibile spiegazione a tutto ciò potrebbe risiedere in due fattori: l’attività solare e la carenza di vitamina D. La vitamina D, nella sua forma attiva, viene sintetizzata dall’organismo quando la pelle è esposta ai raggi solari: la sua produzione, quindi, avviene soprattutto d’estate e si riduce moltissimo durante l’inverno. Nelle zone tropicali questa differenza è molto meno marcata, e l’influenza non è stagionale. Sebbene però la correlazione tra carenza di vitamina D ed influenza sia piuttosto evidente, non è ancora chiaro quale sia il meccanismo che lega le due cose. È noto, comunque, che la vitamina D è molto importante per il buon funzionamento del sistema immunitario.

Per quanto riguarda l’attività solare, diversi studi (vedi ad esempio questo, questo e questo) hanno osservato una correlazione tra un maggior numero di macchie solari (indice di un’aumentata attività) e l’insorgenza di pandemie d’influenza. Particolarmente degno di nota è il fatto che nel periodo del cosiddetto “minimo di Maunder” (1645-1715), caratterizzato da un’attività solare insolitamente bassa, non si registrarono pandemie influenzali! È curioso, inoltre, che il termine “influenza” designasse anticamente le malattie che si ritenevano causate dal “fluido” proveniente dalle stelle: una vaga intuizione del ruolo potenzialmente nocivo delle onde elettromagnetiche, provenienti dal Sole e non solo?

Sopra, andamento del numero di macchie solari a partire dal 1600; sotto, pandemie influenzali a partire dal 1500. Durante il minimo di Maunder, in cui l’attività solare era molto bassa, non sono state registrate pandemie. Entrambe le immagini sono tratte da qui.

Per concludere, è d’obbligo un accenno alle sindromi influenzali che colpiscono gli animali, come l’influenza aviaria e quella suina. Queste malattie si verificano tipicamente negli allevamenti intensivi, dove gli animali vivono in condizioni tremendamente malsane: non c’è bisogno di chiamare in causa i virus per spiegare come mai questi animali si ammalano. Queste semplici considerazioni, tuttavia, non hanno impedito agli “scienziati” di gridare all’emergenza ad ogni nuovo “focolaio”: nel 2009, l’OMS cambiò addirittura la definizione di “pandemia” per far rientrare nella definizione l’influenza “suina” di quell’anno!

Gran parte di ciò che abbiamo riportato in questo articolo è tratto da statistiche ufficiali e da lavori pubblicati su autorevoli riviste scientifiche. Perché allora il mondo accademico si rifiuta di prendere in considerazione tutto ciò? Appare ormai tristemente ovvio come gli “impiegati della scienza” preferiscano dare la caccia a inesistenti “virus letali” piuttosto che indagare le molteplici sfaccettature della salute umana.

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