Le Razze Umane tra Scienza e Mito

Le razze umane in un’illustrazione del 1895.

Periodicamente riesplode la polemica sull’uso del termine “razza” in riferimento a specifici gruppi umani. Pare, infatti, che l’esistenza di razze distinte all’interno della nostra specie sia stata da tempo smentita: pertanto sarebbe scorretto continuare ad usare la parola “razza” in tale contesto. Ma è davvero così? Potremmo rispondere in maniera piuttosto succinta: no. Ma non ci limiteremo a questo: quello delle razze umane, infatti, è un tema vastissimo e ricco di sfaccettature, che merita di essere discusso più approfonditamente.

Le razze umane esistono o no?

“Una razza” – scrive il celebre genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza nel libro Geni, popoli e lingue – “è un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri”. Ma è innegabile che tali gruppi di individui esistano: perché allora sarebbe scorretto parlare di razze? Ebbene, il motivo è che tali differenze non sarebbero abbastanza significative. Nel 1972 il genetista Richard Lewontin, nel suo lavoro The apportionment of human diversity (“La ripartizione della diversità umana”), mostrò che circa l’85% della variabilità genetica umana era dovuto a differenze all’interno delle singole popolazioni; meno del 15% era invece dovuto a quelle tra una “razza” e l’altra. Da allora, questo studio è stato ampiamente usato per “dimostrare” l’inesistenza delle razze umane.

Ma è proprio vero che le conclusioni di Lewontin smentiscono l’esistenza di razze all’interno della nostra specie? In realtà, l’analisi del DNA è perfettamente in grado di stabilire la popolazione di appartenenza di un individuo. Come fece notare Edwards (2003), quando vengono analizzati abbastanza loci la probabilità di sbagliare la categorizzazione razziale di un individuo rasenta lo zero. La fallacia di Lewontin invece consisté nell’analizzare i loci singolarmente, trascurando del tutto le informazioni che poteva ricavare dalle correlazioni fra loci diversi.

Una volta compreso questo aspetto cruciale, appare chiaro che l’analisi del genoma umano conferma l’esistenza delle razze anziché smentirla. Le analisi genetiche, infatti, non consentono di determinare soltanto la razza o popolazione cui appartiene un individuo, ma anche la distanza genetica tra popolazioni diverse. Ciò permette, ad esempio, di realizzare degli alberi filogenetici che mostrano l’ipotetica genealogia delle singole popolazioni. È superfluo far notare che tutto ciò sarebbe impossibile se tra un italiano e un aborigeno australiano sussistesse la stessa differenza che c’è tra un pisano e un fiorentino.

Ascendenza di 51 individui appartenenti a diverse popolazioni (A) e possibile loro albero filogenetico (B). I colori in (A) rappresentano le componenti genetiche tipiche di ogni area. Da Li et al. (2008).

Origini e differenze razziali

Appurato dunque che parlare di razze umane è corretto, potremmo chiederci come abbiano avuto origine le differenti razze che popolano il pianeta, e quali siano le caratteristiche (oltre, ovviamente, al colore della pelle) che distinguono l’una dall’altra e permettono quindi una loro classificazione. Ma mentre a quest’ultima domanda possiamo rispondere facilmente (nonostante sulla sistematica razziale non esista un consenso unanime), per quanto riguarda la prima non abbiamo risposte certe, per cui passeremo in rassegna alcune delle spiegazioni proposte dagli studiosi antichi e moderni.

Come si sono formate le razze?

L’idea che le differenze tra gruppi umani dipendano da fattori ambientali è molto antica: la troviamo già in Ippocrate, e in seguito anche in altri autori greci e latini. Era in particolare al clima che si attribuivano i tratti caratteristici delle popolazioni allora conosciute: la maggiore prossimità al sole che si aveva alle basse latitudini “scuriva” le genti africane, così come la lontananza da esso rendeva più chiari gli abitanti del settentrione.

Molti secoli dopo, George Leclerc de Buffon (1707-1788) ipotizzò che oltre al clima, l’origine delle differenze osservate fosse dovuta anche ad altri fattori come l’alimentazione, gli stili di vita e la mescolanza tra individui più o meno simili. All’inizio, tali fattori avrebbero prodotto solo varianti individuali, ma la loro azione continua avrebbe originato nel tempo razze distinte. Secondo lui la razza originaria era quella bianca; diffusasi questa sul pianeta, l’azione dei differenti climi e degli altri fattori avrebbe prodotto le altre. Egli riconobbe anche il ruolo della trasmissione ereditaria nel mantenimento dei caratteri inizialmente acquisiti.

In seguito, con l’affermarsi delle teorie evoluzionistiche, si fece strada l’idea della selezione naturale, secondo cui i caratteri acquisiti da un individuo in seguito a mutazioni genetiche avrebbero una maggiore probabilità di essere trasmessi alla prole se offrissero un vantaggio nell’ambiente dove l’individuo risiede. Coloro che li possiedono, infatti, riuscirebbero più facilmente a sopravvivere e quindi a riprodursi: di conseguenza, i caratteri si diffonderebbero nella popolazione e dopo un certo tempo diverrebbero predominanti, portando alla genesi di una nuova razza. Ma se, come vedremo, certe differenze sono spiegabili in tal modo, sull’origine di altri caratteri ancor oggi non sappiamo molto più di quanto ne sapessero Aristotele o Plinio.

Alcuni autori, in passato, hanno avanzato l’ipotesi che la differenziazione razziale avesse un’origine endocrina, fosse cioè determinata da variazioni (fisiologiche, non patologiche) negli equilibri ormonali. L’ipotesi nasceva dall’osservazione che negli europei alcune patologie endocrine sembravano riprodurre alcune caratteristiche tipiche di altre razze. L’insufficienza surrenalica, per esempio, produce nei bianchi un’iperpigmentazione cutanea; curiosamente, nei neri il peso delle ghiandole surrenali è minore in confronto ai bianchi. Allo stesso modo, negli europei il timo è meno sviluppato in età adulta rispetto ai Cinesi, il che è coerente con l’aspetto neotenico di questi ultimi, dal momento che il timo inibisce il differenziamento somatico.

Sebbene oggi la maggior parte degli antropologi propenda per il monogenismo della specie umana, esistono anche alcuni sostenitori del poligenismo. Secondo questa ipotesi, le varie razze di Homo sapiens si sarebbero sviluppate separatamente nelle varie zone del pianeta a partire dagli ominidi più antichi ivi residenti, come l’Homo erectus. Esistono diversi modelli di “evoluzione multi-regionale”, che differiscono per l’importanza data al flusso genico (ossia all’ibridazione) tra le popolazioni in via di sviluppo. Uno dei maggiori sostenitori del poligenismo fu il celebre antropologo statunitense Carleton Coon; oggi tale ipotesi è sostenuta solo da scienziati cinesi.

Classificazione e caratteristiche razziali

A partire dal Seicento, quando cominciò a svilupparsi la disciplina della sistematica, sono state proposte numerose classificazioni delle razze umane (talora considerate addirittura specie distinte). Il numero di razze individuate era molto variabile, da tre (bianca, gialla e nera) ad oltre sessanta. Tuttavia, già alla fine del XVIII secolo, l’antropologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach aveva proposto una ripartizione piuttosto “moderna”. Egli individuò cinque razze: caucasica (bianca), mongolica (gialla), etiopica (nera), americana (rossa) e malese (bruna). Nel 1962 Coon propose anch’egli una classificazione in cinque razze, dividendo però la razza nera in congoide (neri propriamente detti) e capoide (Boscimani e Ottentotti), e includendo i nativi americani nella razza mongoloide. Le altre due (caucasoide e australoide) corrispondevano rispettivamente alle razze caucasica e malese di Blumenbach. Questa classificazione è ancor oggi quella di riferimento tra i sostenitori dell’esistenza delle razze; alcuni tuttavia considerano i nativi americani una razza a sé.

Oltre alle razze principali, si possono riconoscere anche delle sottorazze. Per esempio, nella razza caucasoide si possono individuare le sottorazze nordica, mediterranea, alpina e così via. Ognuna di esse è contraddistinta da determinate caratteristiche, in particolare a livello della forma del cranio. Tuttavia le sottorazze non hanno un significato tassonomico così importante, per cui vengono definite anche semplicemente fenotipi.

Razze umane: nell’ordine, caucasoide (fenotipo: hallstatt); mongoloide (fenotipo: sinide); congoide (fenotipo: nilotide); australoide (fenotipo: australide); amerindioide (fenotipo: planide); capoide (fenotipo: sanide). Tutte le immagini sono tratte da qui.

Vediamo ora quali sono i principali caratteri che differiscono da una razza all’altra. In questa sede terremo in considerazione solo quelli morfologici e fisiologici, non quelli psicologici e culturali.

Colore della pelle: si tratta senza dubbio della caratteristica che balza maggiormente all’occhio. È dovuta a diversi pigmenti: il più importante è la melanina, prodotta da cellule specializzate dell’epidermide, i melanociti. Esistono due varietà di questo pigmento, l’eumelanina (di colore nero) e la feomelanina, di colore giallo-rosso. Quest’ultima è particolarmente abbondante in alcune parti del corpo come le labbra, i capezzoli, la vagina e il glande del pene. Com’è intuibile, i neri hanno una quantità di eumelanina molto più elevata rispetto ai bianchi: ciò è dovuto ad una maggiore attività dei melanociti. Oltre alla melanina, nella pigmentazione cutanea entrano in gioco anche il carotene, di colore giallo, e l’emoglobina, di colore rosso. Il primo è presente soprattutto nel tessuto adiposo, mentre la seconda nei globuli rossi.

L’origine delle diverse pigmentazioni viene ricondotta al diverso irraggiamento solare nelle varie aree del pianeta. Così, gli abitanti delle zone equatoriali avrebbero sviluppato una pelle scura per proteggersi dalle radiazioni solari ed evitare una iperproduzione di vitamina D. Non a caso, in Africa le pigmentazioni più scure si riscontrano nelle savane e non nelle foreste, che offrono appunto riparo dal sole. La carnagione chiara dei nordeuropei avrebbe avuto invece lo scopo di garantire un’adeguata produzione di vitamina D in condizioni di scarso irraggiamento solare. Si pensa che gli Eschimesi abbiano mantenuto una pigmentazione più scura poiché la loro dieta ricca di pesce forniva un apporto sufficiente di questa vitamina.

Occhi e capelli: al di fuori dell’Europa, il colore di occhi e capelli presenta una variabilità decisamente scarsa, limitandosi alle tonalità dal bruno al nero. Va detto che alcune eccezioni esistono: presso i Melanesiani, ad esempio, il 5-10% della popolazione ha i capelli biondi. Pare che tale caratteristica abbia un’origine indipendente, non sia dovuta cioè ad una mescolanza antica o recente con popolazioni europoidi. In tutte le razze, comunque, il colore dei capelli è dovuto alla melanina: l’eumelanina prevale nei capelli scuri, la feomelanina in quelli rossi. Nei capelli biondi prevale invece una varietà più chiara di eumelanina, definita “bruna”. La melanina è responsabile anche del colore degli occhi: iridi verdi e azzurre ne possiedono una minore quantità rispetto a quelli scuri. Secondo uno studio del 2008, tutte le persone dagli occhi azzurri discenderebbero da un antenato comune vissuto appena 6-10.000 anni fa.

Per quanto riguarda la forma dei capelli, in Africa, in Melanesia ed alcune regioni affacciate sull’Oceano Indiano prevalgono i capelli crespi; nell’Asia centrale ed orientale e nelle Americhe sono invece diffusi i capelli dritti. Europei ed aborigeni australiani hanno capelli di forme intermedie, dal riccio all’ondulato. Si pensa che i capelli crespi rappresentino un adattamento ai climi caldi: essi infatti tratterrebbero più efficacemente il sudore prolungando l’effetto refrigerante della traspirazione.

È ritenuto invece un adattamento ai climi freddi il cosiddetto occhio mongolico, tipico delle popolazioni dell’Asia orientale. Nell’occhio mongolico la palpebra superiore presenta una piega (plica mongolica) che la rende più spessa, proteggendo l’occhio dai gelidi venti siberiani. Tuttavia, l’occhio mongolico non è esclusivo degli asiatici: lo ritroviamo, oltreché nei nativi americani (che discenderebbero da popolazioni asiatiche), anche nei Boscimani, sebbene meno accentuato. La ragione di ciò non è chiara: considerando però che in tutta l’Umanità la plica mongolica è presente durante lo sviluppo fetale (e talvolta anche nell’infanzia), potremmo ritenere l’occhio mongolico un carattere neotenico, mantenuto solo in alcune razze. Non a caso, come facevamo notare poc’anzi, gli asiatici sono caratterizzati da una spiccata neotenia.

Forma del cranio: in passato, la craniometria (ossia la misurazione di lunghezza, larghezza e altri parametri del cranio) era molto popolare presso gli antropologi. Sebbene oggi venga ritenuta obsoleta, tra razze diverse (e anche tra fenotipi diversi di una stessa razza) sono effettivamente riscontrabili differenze nella forma del cranio. Per esempio, il cranio degli africani presenta orbite quasi rettangolari, a differenza di quelle circolari degli asiatici; negli africani l’apertura nasale è ampia, negli europei è stretta; e così via.

Riproduzioni di crani umani maschili e femminili appartenenti a razze diverse. Da qui.

Statura: è uno dei caratteri più suscettibili all’influenza ambientale, come dimostra il suo significativo aumento in molti Paesi occidentali nel corso degli ultimi decenni. Questo non significa, ovviamente, che nella sua determinazione non entri in gioco anche una componente genetica: ciò è evidente soprattutto nei Pigmei. I Pigmei africani, pur avendo una normale quantità di ormone della crescita, possiedono livelli inferiori del suo recettore e del fattore di crescita IGF-1. Inoltre, durante l’adolescenza quest’ultimo rimane basso, mentre nel resto dell’Umanità aumenta di circa tre volte, determinando una rapida accelerazione nella crescita (il cosiddetto “scatto puberale”). L’assenza dello scatto puberale fa sì che i Pigmei mantengano una bassa statura, in alcuni gruppi inferiore al metro e quaranta.

Fisiologia: le varie razze presentano anche alcune differenze nella fisiologia. Ben nota, in particolare, è la diversa suscettibilità dei neri a certi tipi di farmaci, come gli antipertensivi. Altre evidenti differenze sono deducibili dalle discipline sportive in cui eccellono le diverse razze. Per esempio, i neri sono ottimi velocisti, ma pessimi nuotatori: ciò è dovuto al fatto che, rispetto ai bianchi, essi possiedono una maggiore quantità di fibre muscolari di tipo II, atte a sostenere sforzi intensi e di breve durata; d’altro canto, hanno anche una maggiore densità ossea, che rende loro più difficoltoso il nuoto.

Le razze “esotiche”

Finora ci siamo occupati delle razze umane attualmente presenti sul pianeta. Sappiamo però che sono esistiti tipi umani (sia “arcaici” che “moderni”) oggi estinti: l’Homo erectus, l’uomo di Neanderthal e l’uomo di Denisova sono solo alcuni esempi. In realtà, molti di essi non sono del tutto scomparsi, quanto piuttosto fusi con i sapiens moderni. Secondo alcune stime, il DNA dei Neanderthal costituirebbe l’1-2% del genoma degli europei, mentre quello dei Denisova il 4-6% del genoma dei Melanesiani. Pare, inoltre, che fino al 19% del genoma delle popolazioni africane sia dovuto all’ibridazione con un ominide sconosciuto.

Ma la varietà umana non si esaurisce certo con i ben noti “uomini preistorici”. Esistono infatti numerose razze “esotiche”, non riconosciute dall’antropologia ma la cui esistenza è confermata da varie fonti. Alcune di esse sono menzionate nei miti o immortalate in antiche opere d’arte; di altre sono stati rinvenuti i resti ossei; altre ancora sono note attraverso avvistamenti avvenuti in vari luoghi del mondo. Vediamo qualche esempio.

Uomini dal cranio allungato: crani “umani”, ma esageratamente allungati, sono stati ritrovati in molte parti del mondo. Particolarmente famosi sono quelli di Paracas, in Perù, nei quali l’elongazione raggiunge il massimo grado. Oltre ai resti ossei, esistono anche diverse raffigurazioni antiche (specialmente egiziane e mesoamericane) di individui con la testa allungata. Nonostante tale caratteristica sia comunemente attribuita alla pratica della deformazione cranica artificiale, diversi elementi smentiscono tale ipotesi, tra cui la capacità cranica maggiore del normale (impossibile da ottenere mediante la deformazione) e l’assenza della sutura sagittale. Altra prova che i crani appartenessero a una razza distinta (poi verosimilmente fusasi con l’uomo moderno) è il ritrovamento di feti mummificati che già presentavano questa caratteristica. Inoltre, alcuni anni fa il ricercatore indipendente Brien Foerster ha commissionato un’analisi del DNA sui crani di Paracas, che ha fornito risultati molto interessanti.

Due crani allungati esposti nel Museo Storico di Paracas, in Perù. Da qui.

Uomini scimmia: la letteratura sugli “uomini scimmia” è molto ampia. Creature come lo Yeti e il Bigfoot sono ormai conosciute da chiunque, ma apparentemente ne esisterebbero molte altre simili sparse per il mondo. Non sempre è chiaro, tuttavia, se esse debbano essere identificate con delle specie sconosciute di primati o con ominidi creduti estinti. Quest’ultimo sembrerebbe essere il caso, per esempio, del Golub-Yavan dell’Asia centrale e del Kakundakari africano, forse rispettivamente un Homo erectus e un australopiteco sopravvissuti fino ai giorni nostri. Avvistamenti di creature simili sono avvenuti però anche in luoghi ben lontani da quelli dove avrebbero vissuto gli ominidi preistorici. Per esempio nel 1914, in Mato Grosso, l’esploratore Percy Fawcett si imbatté in alcuni uomini selvaggi ricoperti di peli, chiamati Maricoxi dalle tribù locali, che lo attaccarono con arco e frecce prima di dileguarsi.

Uomini pesce: agli uomini pesce avevamo già dedicato un articolo, dove avevamo cercato anche di offrire una possibile – per quanto approssimativa – spiegazione alla loro genesi. Si tratta di creature presenti nella mitologia di varie popolazioni antiche, anche se non mancano avvistamenti moderni di esseri con simili fattezze. Rimando comunque all’articolo di cui sopra per ulteriori approfondimenti.

Uomini volanti: diversi miti parlano di creature in parte umane e in parte volatili: basti pensare alle Arpie greche o all’Horus egiziano. E anche in questo caso, i miti paiono trovare conferma nei vari avvistamenti di umanoidi volanti. Il più noto di essi è certamente il cosiddetto “uomo falena”, avvistato più volte, da diverse persone, nel novembre del 1966 in West Virginia. L’uomo falena aveva sembianze solo vagamente umane; non mancano però descrizioni di veri e propri uomini alati. Spesso le loro ali, più che quelle degli uccelli, ricordano quelle dei pipistrelli.

Così come avevamo ipotizzato per i “dinosauri superstiti”, questi esseri potrebbero non esistere fisicamente nel nostro mondo, bensì provenire da epoche passate o dimensioni parallele. Tale ipotesi, naturalmente, non si applica alle razze di cui possediamo resti materiali, come gli uomini dal cranio allungato. Anche se tale spiegazione potrà apparire fantascientifica, è quella che a mio avviso spiega meglio la relativa scarsità di riscontri concreti rispetto all’ingente mole di testimonianze che abbiamo su queste “razze esotiche”. Qualunque sia la spiegazione della loro esistenza, essa ci rivela che la nostra storia, anche dal punto di vista bio-antropologico, è sicuramente molto più complessa del previsto.

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