L’Inferno

La Bocca dell’Inferno in una miniatura del XIV secolo (Libro d’Ore di Taymouth, folio 142r).

L’argomento dell’Inferno era particolarmente caro ai predicatori dei secoli scorsi, ed è uno di quelli che più ha stuzzicato la fantasia degli artisti (poeti compresi: come non citare la prima cantica della Commedia dantesca?). Oggi, invece, d’Inferno si parla assai poco, perfino dai pulpiti; il pensiero del diavolo e della dannazione, così vivace nella mentalità cristiana di una volta, sembra destinato ad affievolirsi fino a scomparire.

Si riconoscerà, tuttavia, che sapere se davvero esiste l’Inferno è d’importanza vitale, onde evitare “sgradite sorprese” una volta che saremo “dall’altra parte”. Cercheremo dunque di fare un po’ di luce su questa – è proprio il caso di dirlo – oscura tematica, usando gli strumenti che abbiamo a disposizione: le Sacre Scritture, la teologia ed alcune esperienze di santi, mistici e persone comuni.

L’Inferno nelle Sacre Scritture

Nell’Antico Testamento non si parla molto dell’Inferno; né, d’altronde, del Paradiso: l’antica religione ebraica infatti non contemplava un “aldilà” come lo intendiamo noi oggi. Si credeva che tutti gli uomini avessero una medesima destinazione ultraterrena, gli inferi.

Questa concezione riecheggia in particolare nel libro di Qoelet: “La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti” (3, 19); “È meglio andare in una casa in pianto che andare in una casa in festa; perché quella è la fine d’ogni uomo e chi vive ci rifletterà” (7, 2); “Vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e l’empio, per il puro e l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per il buono e per il malvagio, per chi giura e per chi teme di giurare” (9, 2).

Inoltre, diversi passi biblici dipingono gli inferi come un luogo “neutro”, senza gioie né tormenti: “Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare” (Qo 9, 10); “Regala e accetta regali, distrai l’anima tua, perché negli inferi non c’è gioia da ricercare” (Sir 14, 16); “Negli inferi infatti chi loderà l’Altissimo, al posto dei viventi e di quanti gli rendono lode?” (Sir 17, 22).

Lo scenario è molto diverso nel Nuovo Testamento, dove i riferimenti a una bipartizione dell’aldilà sono evidenti: abbiamo così, da un lato il “regno dei cieli”, futura patria dei giusti, dall’altro un “luogo di tormento”, riservato ai malvagi.

Nei Vangeli, l’Inferno viene spesso associato al fuoco: “Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 7, 19); “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13, 41-42); “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Mt 25, 41). A questi passi fanno eco la Lettera di Giuda: “Così Sodoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate all’impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno” (v. 7); e l’Apocalisse di Giovanni: “Chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (20, 15).

In altri passi evangelici si fa riferimento alle tenebre: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 22, 13); “Il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 25, 30). Ma c’è un ulteriore aspetto che viene spesso evidenziato, ed è quello dell’esclusione. Il regno dei cieli viene talora paragonato ad un sontuoso banchetto, ad una festa dalla quale i reprobi, i dannati saranno esclusi per sempre (Mt 8, 11-12; 25, 10-12; Lc 14, 24). Osserviamo dunque che l’insegnamento di Gesù, nella sua semplicità, aveva già delineato i tratti essenziali di questo regno ultraterreno: l’esclusione, le tenebre, i tormenti, nonché l’eternità di tutto ciò.

I demoni tormentano i dannati; miniatura da un manoscritto del 1420 circa (Speculum humanae salvationis, folio 47).

L’Inferno nella teologia

Vediamo adesso cosa dice la teologia a proposito dell’Inferno. Cominciamo dal Catechismo della Chiesa Cattolica, che ne parla nei punti 1033-1037.

1033. Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi […]. Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola «inferno».

1035. La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, «il fuoco eterno». La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.

1037. Dio non predestina nessuno ad andare all’inferno; questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine […].

Notiamo che il Catechismo, al punto 1035, afferma che la pena principale dell’Inferno consiste nella separazione eterna da Dio. Questa è quella che i teologi chiamano “pena del danno”, il corrispettivo infernale della “gloria essenziale” del Paradiso, che consiste nel possesso e nel godimento di Dio. È facile capire perché sarebbe proprio questa la pena maggiore: più è alto il valore di un bene perduto, maggiore è la sofferenza provocata dalla sua perdita. Di conseguenza, alla perdita di un bene infinito (Dio) corrisponderà una sofferenza d’intensità infinita.

Oltre alla pena del danno, i teologi individuano anche una “pena del senso”, che consiste nei vari supplizi infernali (già tratteggiati nei brani del Vangelo citati poc’anzi). Il corrispettivo celeste della pena del senso è la “gloria accidentale”, cioè la beatitudine data dal possesso e dal godimento del Creato. La pena del senso ha un’intensità minore di quella del danno, come spiegato da San Tommaso d’Aquino:

“La pena è proporzionata alla colpa. E nella colpa si devono considerare due aspetti. Il primo è l’aversione dal bene eterno, che è infinito: e da questo lato il peccato è infinito. Il secondo è la conversione, o adesione disordinata al bene transitorio. E da questo lato il peccato è limitato, o finito: sia perché è tale il bene transitorio; sia perché l’adesione stessa è limitata, non potendo essere infinite le azioni della creatura. Perciò dal lato dell’aversione corrisponde al peccato la pena del danno, che è infinita: è infatti la perdita di un bene infinito, cioè di Dio. Invece dal lato della conversione disordinata corrisponde al peccato la pena del senso, che è limitata” (Somma Teologica, I-II, 87, 4).

Ciò significa che la pena del senso è “personalizzata” e varia a seconda del numero e della gravità dei peccati mortali commessi dai dannati. Specifichiamo “mortali” poiché, secondo la teologia, sono solo questi (se compiuti con piena avvertenza e deliberato consenso) che fanno meritare l’Inferno; ciò non vale invece per quelli veniali.

Ma soffermiamoci sulla questione dell’eternità dell’Inferno. Si tratta forse dell’aspetto più difficile da accettare, poiché ritenuto da alcuni “ingiusto” o “impossibile”. Eppure, come abbiamo già visto, il “fuoco eterno” è menzionato già nel Vangelo; e anche l’Apocalisse ci avverte di questo: “Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome” (14, 11).

Ma è possibile conciliare la giustizia divina con l’eventualità di un supplizio interminabile? Come fatto notare dal Catechismo, l’essere umano è libero di scegliere se amare Dio o meno. Dio non vuole “che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3, 9); pertanto l’Inferno può essere considerato, più che una condanna senza appello emanata da un giudice, come una scelta del singolo essere umano: una scelta definitiva, in quanto fatta (consciamente o meno) in punto di morte e subito dopo cristallizzata nell’eternità.

L’Inferno, dal Trittico del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch (1480-1490 circa).

L’Inferno nelle rivelazioni private

Le “rivelazioni private” vengono così chiamate per distinguerle dalla Rivelazione pubblica, ovvero le Sacre Scritture. Apparizioni (soprattutto mariane), visioni e locuzioni interiori fanno parte di questo tipo di rivelazioni. Diversi mistici cattolici hanno ricevuto rivelazioni private su vari argomenti, tra cui anche l’Inferno. Qui riporteremo un paio di esempi: il primo è uno dei tanti sogni profetici del sacerdote San Giovanni Bosco (1815-1888), risalente al 1868; il secondo è una breve raccolta di messaggi sul tema ricevuti dalla mistica Maria Valtorta (1897-1961).

Il sogno di Don Bosco

(Nota: il testo, di cui trovate qui la versione integrale, è leggermente modificato per adattare il lessico a quello attuale)

Appena addormentatosi, Don Bosco vede in sogno uno strano personaggio che gli ordina di alzarsi e di seguirlo.

«E mi condusse in un luogo, ove si stendeva una vasta pianura. Volsi lo sguardo attorno, ma di quella regione da nessuna parte vedevo i confini, tanto era sterminata. Era un vero deserto. Non compariva anima vivente. Non vi si vedeva una sola pianta, non alcun fiume, l’erba gialla e secca presentava un triste spettacolo. Non sapevo né dove mi trovassi, né cosa fossi per fare.

«Ma tutto ad un tratto si aperse innanzi a me una strada. Allora ruppi il silenzio, domandando alla guida: “Dove dobbiamo andare adesso?”. “Per di qua”, rispose. E c’inoltrammo per quella via. Era bella, larga, spaziosa e ben selciata. Di qua e di là sulle sponde del fosso la fiancheggiavano due magnifiche siepi verdi e coperte di vaghi fiori. Le rose specialmente spuntavano da tutte parti tra le foglie. Questa via a colpo d’occhio sembrava piana e comoda ed io mi sono messo per essa, nulla sospettando. Ma proseguendo nel cammino m’accorsi che questo insensibilmente piegava ingiù e benché la via non sembrasse precipitosa, pure io correvo con tanta facilità che mi pareva di essere portato per aria.

«La strada scendeva sempre. Seguitavamo il cammino tra i fiori e le rose, quando sul nostro stesso sentiero vidi inoltrarsi dietro di me tutti i giovani dell’Oratorio con moltissimi compagni da me mai veduti; ed io mi trovai in mezzo a loro. Mentre io li osservavo a un tratto io vedo che or l’uno or l’altro cadeva ed erano in un momento strascinati da forza invisibile verso un’orribile discesa, intravveduta alquanto lontana, che poi vidi metter capo in una fornace. Mi avvicinai e vidi che i giovani passavano fra molti lacci, alcuni erano rasente a terra, altri all’altezza del capo; questi non si vedevano. Quindi molti giovani camminando restavano presi da questi lacci, senza accorgersi di quel pericolo.

La guida spiega a Don Bosco che i lacci rappresentano i vari peccati: la superbia, la disubbidienza, l’invidia, eccetera. Altri lacci simboleggiano invece il rispetto umano. Tra i lacci inoltre sono disseminati dei coltelli in grado di reciderli, che rappresentano i Sacramenti, la preghiera, la meditazione, e altre “armi spirituali”.

«Quando la guida conobbe che avevo osservata ogni cosa, mi fece continuare la via fiancheggiata dalle rose, ove di mano in mano che mi inoltravo, le rose della siepe divenivan più rare e incominciavano a vedersi lunghe spine. Indi, per quanto guardassi, più non si scopriva una rosa; e in ultimo la siepe era divenuta tutta spinosa, arsa dal sole e senza foglie: poi dai cespugli, sparsi, secchi, partivano rami i quali serpeggiando per il suolo lo ingombravano, seminandolo talmente di spine che a mala pena si poteva camminare. Eravamo giunti in un avvallamento, le cui ripe celavano tutte le regioni circostanti; e la strada, che andava sempre declinando, diventava orrida, disselciata, sparsa di fossi, di scaglioni, di ciottoli e macigni arrotondati.

«Ed ecco in fondo a questo precipizio, che riusciva in una valle oscura, comparire un edifizio immenso che in faccia alla nostra via aveva una porta altissima, serrata. Toccammo il fondo del precipizio. Un caldo soffocante mi opprimeva e un fumo grasso, quasi verde, si innalzava su quei muraglioni solcato da guizzi di fiamme sanguigne. Levo gli occhi a quelle mura; erano più alte d’una montagna. Don Bosco domandò alla guida: “Dove ci troviamo? Che cosa è questo?”. “Leggi, mi rispose, su quella porta; e dall’iscrizione conoscerai dove siamo!”. Guardai e sopra la porta stava scritto: Ubi non est redemptio. Mi avvidi che eravamo alle porte dell’inferno.

La guida conduce Don Bosco all’interno dell’edificio infernale.

«Entrammo in quello stretto e orribile corridoio! Si correva colla rapidità del baleno. Sopra ognuna delle porte interne splendeva con fosca luce un’iscrizione minacciosa. Come si finì di percorrerlo, sboccammo in un vasto e tetro cortile, in fondo al quale si trovava un portello brutto, grosso, di cui non vidi mai il peggiore, sul quale stavano scritte queste parole: Ibunt impii in ignem aeternum.

«“Vieni dunque con me”, soggiunse l’amico; e mi prese per mano, mi condusse innanzi a quel portello e l’aperse. Questo metteva in un andito in fondo al quale era una grande specola chiusa da una larga finestra di un solo cristallo alto dal pavimento fino alla volta a traverso della quale si poteva scorgere dentro. Feci un passo al di là della soglia e mi fermai subito in preda ad un terrore indescrivibile. Mi si presentò allo sguardo una specie d’immensa caverna che andava perdendosi in anfrattuosità incavate quasi nelle viscere dei monti, tutte piene di fuoco, non già come noi lo vediamo sulla terra colle fiamme guizzanti, ma tale che tutto là dentro era arroventato e bianco per il gran calore. Mura, volte, pavimento, ferro, pietre, legna, carbone, tutto era bianco e smagliante. Certo quel fuoco sorpassava mille e mille gradi di calore; e nulla inceneriva, nulla consumava. Io questa spelonca non ve la posso descrivere in tutta la sua spaventosa realtà.

La guida spiega a Don Bosco che tra le principali cause di dannazione vi sono l’impurità e l’attaccamento ai beni materiali. Infine, prima di condurlo fuori dall’edificio, lo invita a sperimentare i tormenti infernali. Don Bosco non vuole farlo, ma la guida gli chiede di toccare almeno il muro più esterno dell’edificio.

«Osservai con maggior attenzione quel muro che era di una grossezza colossale. La guida proseguì: “È il millesimo prima di giungere dove è il vero fuoco dell’Inferno. Son mille i muri che lo circondano. Ogni muro è di mille misure di spessore e di distanza l’uno dall’altro; e ciascuna misura è lunga mille miglia: questo è distante un milione di miglia dal vero fuoco dell’Inferno e perciò è un minimo principio dell’Inferno stesso”. Ciò detto, ritraendomi io per non toccare, afferrò la mia mano, l’aperse per forza e me la fece battere sulla pietra di quell’ultimo millesimo muro. In quell’istante sentii un bruciore così intenso e doloroso che sbalzando indietro e mandando un fortissimo grido, mi svegliai. Mi trovai seduto sul letto, e sembrandomi che la mia mano bruciasse, la stropicciavo con l’altra per far passare quella sensazione. Fattosi giorno, osservai che la mano era gonfia realmente; e l’impressione immaginaria di quel fuoco ebbe tanta forza che in seguito la pelle della parte interna della mano si staccò».

Giudizio Universale (frammento), di Hieronymus Bosch (1506-1508 circa).

Estratti dagli scritti della Valtorta

15 gennaio 1944

«Dice Gesù:

“Ho detto, io Dio Uno e Trino, che ciò che è destinato all’Inferno dura in esso per l’eternità, perché da quella morte non si esce a nuova resurrezione. Ho detto che quel fuoco è eterno e che in esso saranno accolti tutti gli operatori di scandali e di iniquità. Né crediate che ciò sia sino al momento della fine del mondo. No, ché anzi, dopo la tremenda rassegna, più spietata si farà quella dimora di pianto e tormento, poiché ciò che ancora è concesso ai suoi ospiti di avere per loro infernale sollazzo – il poter nuocere ai viventi e il veder nuovi dannati precipitare nell’abisso – più non sarà, e la porta del regno nefando di Satana sarà ribattuta, inchiavardata dai miei angeli, per sempre, per sempre, per sempre, un sempre il cui numero di anni non ha numero e rispetto al quale, se anni divenissero i granelli di rena di tutti gli oceani della terra, sarebbero meno di un giorno di questa mia eternità immisurabile, fatta di luce e di gloria nell’alto per i benedetti, fatta di tenebre e orrore per i maledetti nel profondo.

“L’Inferno è luogo in cui il pensiero di Dio, il ricordo del Dio intravveduto nel particolare giudizio non è, come per i purganti, santo desiderio, nostalgia accorata ma piena di speranza, speranza piena di tranquilla attesa, di sicura pace che raggiungerà la perfezione quando diverrà conquista di Dio, ma che già dà allo spirito purgante un’ilare attività purgativa perché ogni pena, ogni attimo di pena, li avvicina a Dio, loro amore; ma è rimorso, è rovello, è dannazione, è odio. Odio verso Satana, odio verso gli uomini, odio verso se stessi.

“Dopo averlo adorato, Satana, nella vita, al posto mio, ora che lo posseggono e ne vedono il vero aspetto, non più celato sotto il maliardo sorriso della carne, sotto il lucente brillio dell’oro, sotto il potente segno della supremazia, lo odiano perché causa del loro tormento.

“Dopo avere, dimenticando la loro dignità di figli di Dio, adorato gli uomini sino a farsi degli assassini, dei ladri, dei barattieri, dei mercanti di immondezze per loro, adesso che ritrovano i loro padroni per i quali hanno ucciso, rubato, truffato, venduto il proprio onore e l’onore di tante creature infelici, deboli, indifese, facendone strumento al vizio che le bestie non conoscono – alla lussuria, attributo dell’uomo avvelenato da Satana – adesso li odiano perché causa del loro tormento.

“Dopo avere adorato se stessi dando alla carne, al sangue, ai sette appetiti della loro carne e del loro sangue tutte le soddisfazioni, calpestando la Legge di Dio e la legge della moralità, ora si odiano perché si vedono causa del loro tormento.

“La parola “Odio” tappezza quel regno smisurato; rugge in quelle fiamme; urla nei cachinni dei demoni; singhiozza e latra nei lamenti dei dannati; suona, suona, suona come una eterna campana a martello; squilla come una eterna buccina di morte; empie di sé i recessi di quella carcere; è, di suo, tormento, perché rinnovella ad ogni suo suono il ricordo dell’Amore per sempre perduto, il rimorso di averlo voluto perdere, il rovello di non poterlo mai più rivedere.

“L’anima morta, fra quelle fiamme, come quei corpi gettati nei roghi o in un forno crematorio, si contorce e stride come animata di nuovo da un movimento vitale e si risveglia per comprendere il suo errore, e muore e rinasce ad ogni momento con sofferenze atroci, perché il rimorso la uccide in una bestemmia e l’uccisione la riporta al rivivere per un nuovo tormento. Tutto il delitto di aver tradito Dio nel tempo sta di fronte all’anima nell’eternità; tutto l’errore di aver ricusato Dio nel tempo sta per suo tormento presente ad essa per l’eternità.

“Oh! che sia l’Inferno non potete immaginare. Prendete tutto quanto è tormento dell’uomo sulla terra: fuoco, fiamma, gelo, acque che sommergono, fame, sonno, sete, ferite, malattie, piaghe, morte, e fatene una unica somma e moltiplicatela milioni di volte. Non avrete che una larva di quella tremenda verità.

“Nell’ardore insostenibile sarà commisto il gelo siderale. I dannati arsero di tutti i fuochi umani avendo unicamente gelo spirituale per il Signore Iddio loro. E gelo li attende per congelarli dopo che il fuoco li avrà salati come pesci messi ad arrostire su una fiamma. Tormento nel tormento questo passare dall’ardore che scioglie al gelo che condensa.

“Oh! non è un linguaggio metaforico, poiché Dio può fare che le anime, pesanti delle colpe commesse, abbiano sensibilità uguali a quelle di una carne, anche prima che quella carne rivestano. Voi non sapete e non credete. Ma in verità vi dico che vi converrebbe di più subire tutti i tormenti dei miei martiri anziché un’ora di quelle torture infernali.

“L’oscurità sarà il terzo tormento. Oscurità materiale e oscurità spirituale. Esser per sempre nelle tenebre dopo aver visto la luce del Paradiso ed esser nell’abbraccio della Tenebra dopo aver visto la Luce che è Dio! Dibattersi in quell’orrore tenebroso in cui si illumina solo, al riverbero dello spirito arso, il nome del peccato per cui sono in esso orrore confitti! Non trovare appiglio, in quel rimestio di spiriti che si odiano e nuocciono a vicenda, altro che nella disperazione che li rende folli e sempre più maledetti. Nutrirsi di essa, appoggiarsi ad essa, uccidersi con essa. La morte nutrirà la morte, è detto. La disperazione è morte e nutrirà questi morti per l’eternità.

“Io ve lo dico, io che pur l’ho creato quel luogo: quando sono sceso in esso per trarre dal Limbo coloro che attendevano la mia venuta, ho avuto orrore, io, Dio, di quell’orrore; e, se cosa fatta da Dio non fosse immutabile perché perfetta, avrei voluto renderlo meno atroce, perché sono l’Amore e di quell’orrore ho avuto dolore.

“Meditate, o figli, questa mia parola. Ai malati viene data amara medicina, agli affetti da cancri viene cauterizzato e reciso il male. Questa è per voi, malati e cancerosi, medicina e cauterio di chirurgo. Non rifiutatela. Usatela per guarirvi. La vita non dura per questi pochi giorni della terra. La vita incomincia quando vi pare finisca, e non ha più termine.

“Fate che per voi scorra là dove la luce e la gioia di Dio fanno bella l’eternità e non dove Satana è l’eterno Suppliziatore”».

14 gennaio 1948

«Dice il Ss. Autore [lo Spirito Santo, ndr]:

“La tribolazione e l’angoscia della vita non sono che un minimo saggio della tribolazione e angoscia dell’oltre vita. Poiché l’Inferno, la dannazione, sono orrori che anche l’esatta descrizione di essi, data da Dio stesso, è sempre inferiore a ciò che essi sono. Voi non potete, neppure per descrizione divina, concepire esattamente cosa è la dannazione, cosa è l’Inferno. Così come visione e lezione divina di ciò che è Dio ancor non può darvi la gioia infinita della esatta conoscenza dell’eterno giorno dei giusti nel Paradiso, così altrettanto né visione né lezione divina sull’Inferno può darvi un saggio di quell’orrore infinito. Per la conoscenza dell’estasi paradisiaca e per l’angoscia infernale, a voi viventi sono messi confini. Perché se conosceste tutto quale è, morireste d’amore o di orrore».

19 gennaio 1950

«Dice lo Spirito Santo:

“L’Inferno, il luogo di eterna e inconcepibile tortura in cui precipitano quelli che ostinatamente vivono in odio al Signore ed alla sua Legge, è stato creato a causa di lui, dell’Arcangelo ribelle folgorato coi suoi seguaci dall’ira divina e vinto dagli angeli fedeli, vinto, perché ormai spogliato della potenza del suo stato di grazia, folgorato e “precipitato nel profondo dell’Abisso” (Isaia) nel quale il suo orrendo fuoco d’odio, la sua ormai orrenda luce e fiamma, così diversa dalla luce e fiamma di grazia e d’amore di cui Dio lo aveva dotato nel crearlo, accesero i fuochi eterni ed atrocissimi”».

Lucifero come immaginato da Dante, in un’incisione di Gustave Doré (1861).

L’Inferno nelle esperienze di premorte

Veniamo adesso a delle testimonianze “di prima mano” riferite da persone comuni. Mi riferisco alle cosiddette “esperienze di premorte”, o NDE (acronimo per Near Death Experiences). Sicuramente molti avranno già sentito parlare di questi racconti, ritenuti da alcuni una prova dell’esistenza dell’aldilà. Chiaramente non sappiamo se sia davvero così; è certo però che l’argomento merita attenzione.

Sebbene ciascuna esperienza di premorte sia diversa dalle altre, esistono dei tratti comuni, come la percezione del proprio corpo dall’esterno (in genere dall’alto), la visione di un tunnel, l’incontro con i parenti defunti, la rivisitazione della propria vita e la sensazione di una “barriera”, oltrepassata la quale non sarà più possibile tornare indietro. Di solito, le sensazioni sperimentate durante queste esperienze sono positive, ma esistono delle eccezioni: si tratta appunto delle NDE “negative”.

Esistono tre tipi di esperienze di premorte negative: il primo è contraddistinto da visioni tipiche delle NDE “classiche” (come il tunnel), che però suscitano nel soggetto sensazioni negative; nel secondo, il soggetto si ritrova in uno spazio buio e vuoto (un po’ come gli inferi biblici), nella solitudine più totale, con la sensazione che tutto ciò durerà per sempre; il terzo tipo consiste nelle esperienze di premorte infernali.

Nelle NDE infernali il soggetto sperimenta sensazioni di paura e angoscia, ha visioni terrificanti, ode rumori assordanti e incontra esseri demoniaci. In una recente ricerca sono stati presi in esame 123 racconti di NDE: di questi, 17 (il 14%) riferivano esperienze negative; in 8 casi si trattava di NDE infernali. Ecco un breve estratto di un racconto riportato nell’articolo:

“Ci sono più e più entità intorno a me e questo ambiente buio è insopportabile. Il rumore assordante invade lo spazio che diventa sempre più buio. […] E sto cominciando a distinguere delle forme in questa nebbia incredibilmente spessa. Umane, bestiali, mostruose. Sto nuotando in un fetore disgustoso insieme a orribili e furtive creature e mi sento sopraffatta dal dolore. Fa male dappertutto, anzi, peggio, sto diventando io stessa dolore. Capisco che la mia sofferenza è appena iniziata. E ho paura. […] È terribile, è come se stessi assorbendo il dolore e la sofferenza di tutti questi esseri… […] Capisco che mi trovo in mezzo a due mondi e questo mondo di mezzo non è altro che l’Inferno”.

Tra i soggetti che sperimentano questo tipo di NDE c’è una percentuale di suicidi maggiore rispetto a quelli che hanno esperienze “classiche”: l’esperienza negativa potrebbe essere quindi un “assaggio” dell’Inferno? Oppure non è altro che una suggestione (non tanto mentale quanto “spirituale”) dovuta all’intensa angoscia che il suicida prova mettendo fine alla propria vita? In altre parole: quello che il soggetto vede è il vero Inferno, oppure una proiezione, all’esterno di sé, delle proprie paure e angosce (una sorta di “inferno su misura”)?

Forse le due ipotesi non sono mutuamente esclusive. Perché se è vero che l’aldilà è un luogo, è anche vero che la percezione che si ha di esso potrebbe plasmarlo fino al punto di renderlo “a nostra immagine e somiglianza”. Del resto Gesù invitava ad accumulare tesori in cielo (Mt 6, 20), con ciò indicando che le basi della vita futura devono essere gettate durante la vita terrena: possiamo così costruirci poco a poco il Paradiso… ma, a seconda delle nostre azioni, anche l’Inferno.

Sta a noi scegliere.

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