Cosa Sappiamo Davvero sulla Preistoria?

Duria Antiquior – A More Ancient Dorset (1830), acquerello del geologo e paleontologo inglese Henry de La Beche. L’opera ricostruisce la fauna preistorica del Dorset (sud dell’Inghilterra) sulla base dei ritrovamenti fossili, ed è considerata pertanto il più antico esempio di paleoarte. Da qui.

Introduzione

Tutto ciò che è accaduto sul nostro pianeta prima dell’invenzione della scrittura (fatta risalire alla metà del IV millennio a.C.) rientra nel periodo definito “preistoria”, ossia “precedente alla storia”.  Poiché la formazione della Terra è datata a circa 4 miliardi e mezzo di anni fa, si comprende come il periodo caratterizzato dallo sviluppo della civiltà umana (la “storia”, appunto), occupi un ritaglio di tempo veramente minuscolo se paragonato a quello intercorso dall’origine del pianeta fino ad oggi.

Sebbene a noi uomini del terzo millennio appaia scontata una concezione di così ampio respiro del nostro passato, non sempre è stato così. Non molti secoli fa, in Occidente, le origini del Cosmo e dell’Umanità erano ritenute molto più recenti, sulla base di quanto affermato dai primi capitoli della Genesi. Seguendo le indicazioni cronologiche fornite dalla Bibbia, alcuni dotti cercarono di determinare perfino la data esatta della Creazione: l’arcivescovo irlandese James Ussher (1581-1656), per esempio, fissò questa data al 23 ottobre del 4004 a.C.

Prima pagina degli Annales Veteris Testamenti di James Ussher (1650), dove è riportata la data della Creazione da lui ricavata: la notte precedente il 23 ottobre del 4004 a.C. Da qui.

Con il tempo apparve chiaro che la Terra era in realtà molto più antica, ed oggi non facciamo fatica ad accettare questo fatto. Non solo: la preistoria è stata suddivisa dagli studiosi in ampie porzioni di tempo (ere, periodi, epoche) a cui sono stati assegnati confini il più possibile precisi. È stata ricostruita anche l’evoluzione delle attuali forme viventi, inquadrando cronologicamente quelle giunte fino a noi solo tramite i resti fossili.

Tutte queste nozioni vengono presentate oggi come un blocco di certezze granitiche, supportate da miriadi di conferme e mai scalfite da prove contrarie. Ma questo, come intuibile da chiunque abbia un minimo di spirito critico, è falso. Tra poco motiveremo questa affermazione; prima però ripercorriamo brevemente la storia della Terra così come ricostruita dagli scienziati.

L’evoluzione della Vita sulla Terra

4 miliardi e mezzo di anni fa, il nostro mondo era una palla di lava incandescente, un vero inferno. Solo dopo molti milioni di anni si raffreddò; la lava si solidificò e si formarono gli oceani. E fu proprio nell’acqua (il cosiddetto “brodo primordiale”) che comparve la Vita, i primi organismi unicellulari: ciò accadde circa 2,8 miliardi di anni fa. Ma bisognerà aspettare altri due miliardi di anni affinché più cellule decidano di “mettersi in società”, dando origine alle prime forme di vita pluricellulari.

Passa il tempo e arriviamo all’era detta Paleozoica, che inizia con il periodo definito Cambriano, circa 590 milioni di anni fa. In questo periodo c’è una vera esplosione di forme di vita: probabilmente tutti i phyla animali odierni fecero la loro comparsa proprio durante il Cambriano.

Piano piano, la Vita (vegetale e animale) si diversifica sempre di più, e dopo aver colonizzato i mari si avventura sulla terraferma. Il pianeta viene così ricoperto da foreste lussureggianti e popolato da strani e giganteschi animali. Ma non sempre tutto fila liscio: a causa di qualche misterioso cataclisma, a lunghi intervalli di tempo gran parte di queste forme di vita scompare.  La più grande decimazione, forse causata da un impatto meteoritico, si ha alla fine del periodo Permiano, 250 milioni di anni fa. Con questa devastante estinzione di massa finisce l’era Paleozoica e ne inizia un’altra, quella Mesozoica.

Ere geologiche e loro suddivisione.

L’alba del primo giorno dell’era Mesozoica sorse su un mondo brullo e desolato. Le rigogliose foreste avevano lasciato il posto a distese di tronchi secchi, e nell’aria aleggiava un lugubre silenzio. Pochi animali erano sopravvissuti, ma tra loro c’erano gli antenati di quelli che sarebbero diventati, di lì a poco, i padroni incontrastati della Terra: i dinosauri.

Nel corso dei milioni di anni che seguirono, i dinosauri crebbero in numero e varietà di specie e colonizzarono tutto il pianeta; altri rettili popolarono il cielo (pterosauri) ed altri ancora il mare (ittiosauri e plesiosauri). Il mondo tornò a ricoprirsi di foreste, e comparvero i fiori. Grandi giganti calpestarono la terra, i più grandi che il mondo abbia mai visto. Altri piccoli esseri, nel frattempo, vivevano nell’ombra attendendo il momento propizio per uscire allo scoperto: erano i mammiferi. La loro fu un’attesa lunga, ma alla fine, 65 milioni di anni fa, un corpo celeste colpì la Terra e tutti i dinosauri, nessuno escluso, si estinsero, e con loro pterosauri, ittiosauri e plesiosauri. Questa estinzione segnò la fine dell’era Mesozoica e l’inizio di quella Cenozoica. Spariti i dinosauri, i mammiferi (all’epoca simili a dei topolini) poterono finalmente uscire dalle loro tane senza paura di essere schiacciati. E una volta usciti, divennero in breve i padroni del pianeta. Milioni di anni si susseguirono, e il mondo vide il topo salire sugli alberi e diventare lemure, e il lemure diventare scimmia, e la scimmia diventare scimmione e scendere dagli alberi.

Ma quando lo scimmione scese dagli alberi, si rese conto che l’erba era alta e non era possibile attraversarla camminando sulle nocche, perché il leone era là, fermo, attento, in agguato, e non aspettava altro che lui. E lo scimmione capì che solo alzandosi in piedi poteva vedere al di là dell’erba, e vedere il leone che l’attendeva con l’acquolina in bocca, e sfuggirgli e dare origine ad una discendenza che avrebbe dominato il mondo.

E così lo scimmione si alzò in piedi, e brandì in alto la clava. Era nato l’uomo, quella buffa creatura che oggi ha la possibilità di raccontare la propria storia, storia che gli hanno raccontato i nonni, i nonni dei nonni, i lontani antenati, lontani, lontanissimi, ancora più lontani… fino a risalire sugli alberi, e ancora e ancora, fino a ridiscenderne e testimoniare la grande estinzione, e quella ancora più grande, e come venne colonizzata la terra, il mare, e il brodo primordiale.

Bello, vero? Questo è il riassunto (un po’ “romanzato”, lo ammetto) della storia della Vita sulla Terra, così come ricostruita dagli studiosi. Ma… quanto c’è di vero in questa ricostruzione? Come vedremo tra un attimo, essa poggia su basi che definire traballanti è dire poco: è un vero e proprio edificio “costruito sulla sabbia” (Mt 7, 26).

Il problema delle datazioni

Nel paragrafo precedente abbiamo fornito diverse date; altre sono visibili nella tabella sulle ere geologiche. La domanda, a questo punto, potrebbe sorgere spontanea: come facciamo a conoscere queste date?

E qui iniziano i problemi. Problemi riassunti egregiamente in questo articolo, che vi invito a leggere. Ad ogni modo, esamineremo anche qui la questione.

Datazioni assolute e relative

Bisogna sapere che in geologia esistono due tipi di datazioni: quelle assolute e quelle relative. Solo le prime forniscono delle cifre, per quanto approssimative; le datazioni relative, invece, stabiliscono l’antichità di una roccia rispetto ad altre, raffrontando i fossili in esse intrappolati.

E qui spunta una seconda domanda: su quali basi un fossile è ritenuto più antico di un altro? La logica ci porterebbe a dire che le forme di vita più semplici (e quindi più “primitive”) siano anche quelle più antiche. Senonché anche oggi sul pianeta coesistono organismi “primitivi” ed “evoluti”: come la mettiamo, allora?

Il fatto è che questo sistema di datazione è obsoleto. Le sue radici risalgono al XVII secolo, quando i naturalisti cominciarono ad ordinare cronologicamente gli strati di rocce sedimentarie: poiché la deposizione di sedimento avviene sopra uno strato già esistente, gli strati più profondi dovevano logicamente essere più antichi di quelli più superficiali. Fu il geologo inglese William Smith, sul finire del ‘700, a ipotizzare che ogni strato contenesse un “fossile caratteristico”: strati contenenti fossili dello stesso tipo appartenevano molto probabilmente allo stesso periodo. Le idee di Smith furono riprese dal geologo scozzese Charles Lyell, sostenitore dell’uniformitarismo (teoria che esaltava il ruolo dei processi lenti e graduali nel modellare il pianeta); con l’affermarsi della teoria evoluzionistica di Charles Darwin, nella seconda metà del XIX secolo, la successione dei fossili fu vista come una prova del processo evolutivo.

Strati geologici ben visibili nella formazione rocciosa di La Yesera (Argentina). Da qui.

Ora, non ci vuole molto a capire che questi ragionamenti erano basati su assunzioni del tutto arbitrarie. Infatti:

  1. Uno strato di sedimento più profondo non è necessariamente più antico: esperimenti sulla sedimentazione compiuti dal geologo francese Guy Berthault hanno mostrato che più strati possono formarsi contemporaneamente, le particelle di roccia disponendosi in base alle loro dimensioni;
  2. Testimonianze fossili di forme di vita primitive non implicano necessariamente una maggiore antichità dello strato in cui si trovano: forme di vita più evolute potrebbero essere state presenti ma non aver lasciato resti fossili, forse perché meno abbondanti (ricordiamo infatti che la fossilizzazione è un processo molto raro, e quindi meno probabile se una specie è rara) oppure perché occupavano habitat diversi che non favorivano la fossilizzazione;
  3. Non sempre i processi geologici sono lenti e graduali: le Channeled Scablands, per esempio, furono create con ogni probabilità da una catastrofica alluvione; anche la sedimentazione può avvenire rapidamente, come durante l’eruzione del Monte Saint Helens nel 1980, in cui si accumularono 8 metri di sedimenti in poche ore.
Sedimenti formatisi in seguito all’eruzione del Monte Saint Helens, nel 1980. Da qui.

Teniamo presente che le nostre attuali conoscenze del passato della Terra e sull’evoluzione (?) degli esseri viventi si basano su questi presupposti. Diciamo che non è certo un buon inizio…

E le datazioni assolute? Esse sfruttano la proprietà di alcuni elementi radioattivi di decadere (cioè trasformarsi mediante l’emissione di radiazioni) in altri elementi o in altri isotopi dello stesso elemento in precisi intervalli di tempo; sono note perciò anche come “datazioni radiometriche”. I principi fondamentali del metodo sono raffigurati nella figura sottostante.

Schema illustrante i principi su cui si basano le datazioni radiometriche.

Le datazioni radiometriche potrebbero sembrare più affidabili di quelle relative. Ma non è così, per almeno due ragioni.

Innanzitutto, questi metodi possono essere applicati alle rocce ignee (di origine vulcanica) ma non a quelle sedimentarie (dove si trovano i fossili), poiché di solito queste ultime non contengono elementi radioattivi: di conseguenza, uno strato di roccia sedimentaria può essere “datato” solo datando gli strati di rocce ignee tra cui è compreso.

Ma c’è anche un altro problema: come spiegato nell’articolo precedentemente citato, queste datazioni forniscono spesso risultati fra loro contraddittori. Questo fa sì che vengano considerate “plausibili” solo le date in accordo con la scala stratigrafica. In pratica ciò che si dovrebbe dimostrare viene considerato già dimostrato!

Tutto ciò rende i metodi radiometrici poco affidabili per la datazione dei fossili. Fa eccezione il metodo del radiocarbonio (o carbonio-14), che però può essere impiegato solo per reperti relativamente recenti, dell’ordine di alcune migliaia di anni.

Fallacia delle datazioni geologiche

Come prevedibile, si hanno talvolta notevoli incongruenze tra la cronologia convenzionale e le date ottenute mediante i metodi radiometrici. Qualche esempio:

  • Rocce vulcaniche di età “nota” (in base alla scala stratigrafica), se datate con il metodo potassio-argon, si rivelano “troppo giovani” o addirittura appena formate (Evernden et al., 1964);
  • Datazioni di rocce precambriane effettuate con i metodi rubidio-stronzio e potassio-argon danno risultati completamente differenti, il secondo fornendo età notevolmente inferiori (Clauer, 1981);
  • Alcuni diamanti rinvenuti in depositi paleozoici si rivelano estremamente più giovani in seguito a datazione con radiocarbonio: le età ottenute vanno dai 65.000 agli 80.000 anni (Taylor & Southon, 2007).

Ritrovamenti “anomali”

Esistono numerosi ritrovamenti difficilmente spiegabili ricorrendo alla cronologia comunemente accettata. Vediamo alcuni esempi.

Fossili polistrato

Alcuni fossili occupano contemporaneamente più strati geologici: un eccellente esempio è costituito dagli alberi fossilizzati, talora raggruppati in gran numero a formare delle vere e proprie “foreste fossili”.

È chiaro che la formazione di simili fossili può verificarsi soltanto a seguito di eventi catastrofici (seppure su scala locale), per esempio un’alluvione o un’eruzione vulcanica: la deposizione di sedimento, infatti, dev’essere piuttosto rapida per consentire la fossilizzazione. I numerosi esempi di foreste fossili, risalenti a diversi periodi geologici, sembrerebbero suggerire che tali eventi siano più comuni del previsto. Di conseguenza, anche un’elevata velocità di sedimentazione potrebbe non essere così rara: alcuni strati geologici potrebbero essersi formati in un tempo molto più breve di quello stabilito.

Tessuti di dinosauro ancora integri

Quanto a lungo può conservarsi un tessuto vivente? Diecimila anni? Centomila? Un milione? A quanto pare, alcuni tessuti di dinosauro sarebbero ancora pressoché intatti dopo ben 65 milioni di anni…

Questa è la straordinaria scoperta della paleontologa americana Mary Higby Schweitzer: il suo studio del 2005 descrive infatti la presenza, in ossa di tirannosauro, di vasi sanguigni meravigliosamente conservati (sono visibili addirittura i globuli rossi!). Né questo ritrovamento è stato unico nel suo genere: l’analisi di altri campioni (appartenenti anche ad altri animali preistorici) ha mostrato infatti che la preservazione dei tessuti molli è molto più comune del previsto (Schweitzer et al., 2007).

Ma com’è possibile che i tessuti molli possano attraversare intatti, senza decomporsi, milioni di anni? La paleobiologa Jasmina Wiemann ammette che “secondo le leggi della chimica e della fisica, la preservazione di proteine di dinosauro è completamente paradossale… Nel giro di poche centinaia di migliaia o al massimo un milione di anni, tutte le proteine nelle strutture dei tessuti molli dovrebbero essere idrolizzate e degradate completamente”. In questa ricerca, comunque, la Wiemann e i suoi collaboratori mostrano come modifiche ossidative delle proteine, con la conseguente formazione di polimeri, potrebbero favorire una più lunga conservazione del tessuto.

Ma quanto più lunga? Questo, chiaramente, non possiamo saperlo; in ogni caso – e penso sia ovvio – la conservazione dei tessuti molli sarebbe molto più probabile nei fossili più recenti che in quelli molto antichi.

E tutto ciò farebbe supporre che in realtà i dinosauri siano molto più recenti di quanto ritenuto…

Tessuti molli di dinosauro. (A) Capillare sanguigno in un osso di tirannosauro, contenente alcune cellule ematiche, forse globuli rossi. (B-C) Osteociti di brachilofosauro isolati. Da Schweitzer et al. (2007).

Oggetti fuori posto (OOPArts)

Gli OOPArts (Out Of Place Artifacts) sono oggetti (solitamente manufatti) che testimonierebbero la presenza dell’uomo o di tecnologie avanzate in epoche remote, precedenti alla comparsa dell’uomo o della tecnologia necessaria per realizzare questi oggetti. La dicitura “fuori posto” (out of place) si riferisce al fatto che questi oggetti vengono rinvenuti in strati geologici dove non dovrebbe esservi traccia alcuna della presenza umana, quindi appunto “fuori posto”.

Come avevamo accennato qui, indizi archeologici e mitologici sembrerebbero suggerire un’origine estremamente antica della civiltà umana, probabilmente di gran lunga anteriore ai 350.000 anni fa. Senonché gli OOPArts vanno molto, molto oltre: alcuni di questi oggetti risalirebbero addirittura all’era Paleozoica! Ma questa, a mio avviso, più che una prova dell’estrema antichità umana, è una prova (ulteriore) dell’errata datazione degli strati geologici.

Michael Cremo e Richard Thompson, nel loro libro Archeologia Proibita, passano in rassegna un gran numero di ritrovamenti di OOPArts, mostrando come queste scoperte furono spesso ignorate (o addirittura insabbiate) dalla comunità scientifica. Ecco alcuni esempi:

  • Nel 1871 William Dubois, un membro dello Smithsonian Institute, riportò il ritrovamento di una moneta di rame durante lo scavo di un pozzo a Lawn Ridge (Illinois), a circa 35 metri di profondità. La moneta recava iscrizioni in caratteri sconosciuti, il che esclude che potesse trattarsi di un reperto recente. Lo strato in cui era stata rinvenuta, secondo le moderne datazioni, si sarebbe formato tra i 200.000 e i 400.000 anni fa (ricordiamo che l’Homo sapiens sarebbe giunto “ufficialmente” nelle Americhe non prima di 25.000 anni fa);
  • Nel 1875 Giovanni Capellini, docente di geologia all’Università di Bologna, descrisse il ritrovamento nei dintorni di Siena di ossa di balena recanti tracce di incisioni, realizzabili solo con strumenti taglienti realizzati dall’uomo; difatti nelle vicinanze dei resti ossei furono rinvenute diverse lame di selce. L’animale apparteneva al genere Balaenotus, estintosi nel Pliocene (2-5 milioni di anni fa);
  • Durante la seconda metà del XIX secolo, nelle miniere d’oro della California furono ritrovate ossa umane e numerosi manufatti in pietra: accette, punte di lancia, mortai con pestello ed altro ancora. Alcuni di questi oggetti si trovavano in depositi risalenti all’Eocene (35-55 milioni di anni fa);
  • L’11 giugno del 1891, il Morrisonville Times riportò la notizia del ritrovamento, in un blocco di carbone, di una catenina d’oro a otto carati, lunga una trentina di centimetri e del peso di circa 13 grammi. Il carbone in cui fu rinvenuta proveniva dalle miniere dell’Illinois e si sarebbe formato tra i 260 e i 320 milioni di anni fa;
  • Nel 1844 Sir David Brewster, un fisico scozzese, riferì la scoperta di un chiodo conficcato in un blocco di arenaria del tipo Old Red nella cava Kingoodie, a Mylnfield (Scozia). L’arenaria Old Red viene datata al periodo Devoniano (360-410 milioni di anni fa). La testa del chiodo era anch’essa inclusa nella roccia; ciò esclude che esso sia stato conficcato nel blocco dopo l’estrazione dalla cava.
Fronte (a sinistra) e retro (a destra) della strana moneta rinvenuta a Lawn Ridge in Illinois. Da Dubois (1871).

Conclusioni

Cosa sappiamo veramente sulla preistoria, quindi? Davvero tutto ciò che “sappiamo” in realtà è falso?

Ovviamente no, anzi: negli ultimi decenni la paleontologia ha compiuto enormi progressi, permettendoci di giungere a conoscenze ritenute irraggiungibili solo fino a poco tempo fa. Per quanto riguarda i dinosauri, ad esempio, oggi abbiamo moltissime informazioni sul loro aspetto, sulla loro fisiologia e sul loro comportamento. Tutto ciò è stato possibile grazie allo sviluppo di tecniche d’indagine sempre più raffinate, oltreché naturalmente alle forze congiunte di vari studiosi.

Insomma: conosciamo sempre meglio i protagonisti della nostra storia, ma ancora non sappiamo (anche se crediamo di saperlo) dove collocarli nel tempo. Piaccia o meno, infatti, la cronologia del nostro pianeta è tutta quanta (o perlomeno in larga parte) da riscrivere.

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