Semiti e Indoeuropei

Abitanti della Spagna preromana in un’illustrazione dal libro Historia General de España di Modesto Lafuente (1879). A sinistra gli iberici, al centro un fenicio, a destra i celtiberi.

Molto è stato scritto a proposito degli Indoeuropei, delle loro origini e della loro lingua. Una delle questioni ancor oggi dibattute in questo campo è quella dei contatti tra l’indoeuropeo e altre famiglie linguistiche, in particolare il semitico. Somiglianze lessicali e fonetiche hanno indotto alcuni linguisti ad ipotizzare che Indoeuropei e Semiti vissero originariamente in zone limitrofe. Altri si sono spinti più in là, suggerendo la possibilità di una parentela tra le due famiglie linguistiche.

A prima vista, l’argomento potrebbe sembrare non particolarmente degno di attenzione; tuttavia, ad uno sguardo più attento si rivela decisamente intrigante. I punti di contatto tra Indoeuropei e Semiti, infatti, non si limitano all’ambito linguistico ma riguardano anche la religione, la mitologia, la letteratura ed altro ancora. Insomma, sono un po’ troppi per non far pensare ad un antico contatto fra le due stirpi. Ma quando, e soprattutto dove, sarebbe avvenuto tale contatto? La risposta a questo interrogativo, come vedremo, può rivelarci molto sulla storia non scritta dei popoli europei…

Sem, Cam e Iafet

Il decimo capitolo della Genesi riporta le discendenze dei tre figli di Noè – Sem, Cam e Iafet – ognuno dei quali sarebbe il capostipite di un certo numero di popolazioni. Secondo la tradizione, da Iafet discenderebbero i popoli indoeuropei, mentre da Sem e Cam rispettivamente Semiti e Camiti (quest’ultimo gruppo include ad esempio Egiziani ed Etiopi). Occorre precisare, innanzitutto, che molti dei nomi che compaiono sulla “tavola dei popoli” (soprattutto tra i discendenti di Sem e Cam) sono d’incerta interpretazione; pertanto, non è da escludere che molti dei Semiti e Camiti biblici abbiano poco o nulla a che fare con quelli oggi definiti tali. È però oggettivo che, così come esiste una famiglia linguistica indoeuropea, ne esista anche una “camito-semitica” (o afroasiatica, di cui il semitico rappresenta uno dei rami).

Moderna distribuzione delle lingue afroasiatiche. Da qui.

Ben noti sono gli sforzi di linguisti ed archeologi per identificare la culla degli Indoeuropei. Meno conosciuti sono i tentativi di localizzare l’Urheimat afroasiatica, anche perché a tutt’oggi non esiste un consenso unanime sulla questione. La maggior parte degli studiosi la colloca in Africa, ma non manca chi ipotizza invece una patria mediorientale. Non c’è accordo neppure sull’epoca in cui sarebbe stato parlato il proto-afroasiatico, anche se questa famiglia linguistica viene generalmente ritenuta molto antica (oltre 10.000 anni). Ma una datazione del genere coincide grosso modo con l’epoca di Atlantide, scomparsa, secondo Platone, 11.600 anni fa. E infatti, come avevamo mostrato in questo articolo, ad Atlantide (di cui l’isolotto di Rockall rappresenta l’ultimo vestigio) si parlava con buona probabilità proprio una lingua di ceppo afroasiatico!

È possibile quindi che la zona di origine delle lingue afroasiatiche prima, e semitiche poi, sia stata non l’Africa o il Levante, ma l’Europa occidentale? La questione meriterebbe senz’altro uno studio approfondito da parte degli specialisti del settore; tuttavia, possediamo già alcuni elementi che lasciano aperta questa possibilità.

Il primo indizio proviene da osservazioni di carattere genetico e antropologico. La presenza di genti caucasoidi nell’Africa settentrionale (che prima dell’espansione islamica parlavano lingue berbere, anch’esse afroasiatiche) viene ricondotta infatti ad una migrazione proveniente dalla penisola iberica, avvenuta circa 20.000 anni fa. Questa popolazione europea, verosimilmente cromagnoide, sarebbe stata all’origine della cultura iberomaurusiana.

Un altro indizio proviene da considerazioni linguistiche. L’elemento ber, per esempio, si ritrova sia nell’etnonimo degli Iberi che in quello dei Berberi, il che suggerisce l’esistenza di un antico continuum tra l’Europa occidentale e il Nordafrica. Stessa cosa potrebbe dirsi per toponimi come la Mauritania africana e la Lusitania iberica, a cui potremmo aggiungere le regioni francesi dell’Aquitania e dell’Occitania. Il suffisso -tania, da alcuni ricondotto al basco, è stato avvicinato anche ai termini berberi ait “figlio, appartenente a una tribù” e at “popolo”. E tornando agli etnonimi, forse possiamo associare i Mauri della Mauritania al popolo mediorientale degli Amorrei, di stirpe semitica.

Come nel caso del proto-afroasiatico, non è chiaro dove sia stato parlato il proto-semitico. L’esistenza di parole proto-semitiche per indicare il ghiaccio e la quercia farebbe propendere per una patria relativamente settentrionale. Tuttavia, termini condivisi per piante quali fico, pistacchio e mandorla (nonché per mare e barca) indirizzerebbero la ricerca intorno al bacino del Mediterraneo. D’altro canto, la presenza di un nutrito vocabolario per indicare montagne e colline ha indotto alcuni a collocare l’Urheimat semitica sui monti Zagros.

Comunque, la tesi che le lingue semitiche si siano originate in Medio Oriente è problematica. Non spiega, per esempio, le loro affinità con il berbero, e contrasta anche con l’assenza di toponimi semitici “pre-sumerici” in Mesopotamia. Tale assenza indusse Gelb (1960) ad affermare che “i Semiti, come i Sumeri, sono chiaramente dei nuovi arrivati nella Terra dei Due Fiumi, e si sono sovrapposti a un’altra popolazione di origine sconosciuta”. Ciò è ancora più paradossale se ipotizziamo un’origine mediorientale non solo per il semitico, ma per tutte le lingue afroasiatiche.

Ma torniamo all’Europa. Tra i linguisti, quello che ha sostenuto con più forza l’antica presenza di idiomi semitici in Europa occidentale è il tedesco Theo Vennemann. Una prima stratificazione linguistica, da lui denominata “atlantica”, risalirebbe al V millennio a.C. e avrebbe funto da substrato per le lingue celtiche, arrivate in loco solo alcuni millenni più tardi. L’occupazione semitica si sarebbe protratta a lungo (all’incirca fino al 200 a.C.), giungendo fino alla Scandinavia. Le lingue semitiche (in particolare il punico, parlato dai Fenici) avrebbero avuto una notevole influenza anche sul germanico, stavolta però come superstrato. Tra i vocaboli tedeschi dalla possibile origine semitica, Vennemann individua anche Adel “nobiltà”, suggerendo che il nome del primo re di Atlantide – Atlante, appunto – possa avere la medesima etimologia: un’interpretazione che si concilia a meraviglia con la nostra tesi sulla lingua dell’isola scomparsa.

Le somiglianze tra lingue celtiche e semitiche sono ben note. Entrambe sono lingue con sintassi di tipo VSO (verbo, soggetto, oggetto); entrambe possiedono preposizioni flesse ed articoli determinativi, mentre nessuna possiede articoli indeterminativi; e così via. Ma esistono ulteriori affinità tra mondo celtico e “camito-semitico”, che si estendono anche nel campo dell’arte e della religione. La concezione celtica della vita dopo la morte, per esempio, era più simile a quella egizia che non a quella indoeuropea. Ancora più significativa è la presenza di determinati simboli sia nell’arte egizia che nelle antiche incisioni rupestri europee. Uno di essi è quello della “barca solare”, con cui, secondo gli Egizi, il dio Ra trasportava durante la notte le anime dei defunti, e che ritroviamo anche in Bretagna, in Irlanda e nel sud della Svezia.

Due esempi di barche solari: in alto una pittura rupestre datata all’età del bronzo e proveniente da Svenneby, nei pressi di Tanum, in Svezia; in basso una decorazione della tomba di Ramses, in Egitto.

Non sorprende, quindi, che la divisione del giorno in ore riportata nel capitolo LXXII del Libro di Enoch sia valida ad una latitudine di 49°, in pratica quella della Normandia. Sebbene il Libro di Enoch venga datato al II secolo a.C., può darsi che includa materiale ben più antico, forse appunto risalente all’epoca in cui i Semiti vivevano ancora nelle contrade “celtiche”.

I Fenici

Come abbiamo visto, secondo Vennemann l’influsso semitico sulle lingue germaniche sarebbe dovuto ai Fenici. Poiché l’Urheimat germanica dev’essere collocata tra la Danimarca e la Scandinavia meridionale, è lecito chiedersi se esistano prove della presenza fenicia in questi territori. Ebbene, una breve ricerca in tal senso non lascia delusi…

Esaminiamo innanzitutto le prove archeologiche ed epigrafiche. Che il Mediterraneo e il Baltico fossero in contatto già nell’antichità risulta chiaramente dal ritrovamento di ambra baltica nelle tombe micenee, così come dalla presenza di rame proveniente dalla penisola iberica e dalla Sardegna nelle armi svedesi risalenti all’età del bronzo. Per quanto riguarda, nello specifico, i Fenici, alcune prove della loro presenza nel sud della Svezia sono state raccolte da Mörner e Lind (2015). Per esempio, negli anni ’30, sulla spiaggia di Ravlunda, un pescatore locale ritrovò una perla in seguito identificata come fenicia, datata all’età del bronzo. Gli autori elencano anche diverse iscrizioni rupestri i cui simboli si ritrovano anche nel Mediterraneo orientale. Tra esse vi sono quelle della Tomba del Re a Kivik, datata al 1300-1200 a.C., e per la quale già l’archeologo svedese Sven Nilsson, nel 1875, ipotizzò un’origine fenicia.

I Fenici potrebbero anche aver contribuito direttamente (ovvero senza la mediazione dei Greci o degli Etruschi) allo sviluppo dell’alfabeto runico, noto anche come futhark dal nome dei primi sei segni da cui è composto. Tra gli elementi che suggeriscono una filiazione diretta del futhark dall’alfabeto fenicio c’è il fatto che in entrambi il nome di ciascun segno ha un significato indipendente (uomo, giorno, acqua, ruota, ecc.). Ciò non si verifica ad esempio nell’alfabeto greco, dove alpha, beta, gamma, ecc. indicano solo i singoli segni e nient’altro. Altra coincidenza è che la prima runa del futhark è chiamata *fehu “bestiame”, mentre il nome della prima lettera dell’alfabeto fenicio, aleph, significa “bue”.

Vennemann ha evidenziato anche diverse somiglianze tra l’antica religione germanica e quella fenicia. In particolare, il dio germanico Baldr, o Balder, non sarebbe altri che il fenicio Baal. Il suo nome deriverebbe infatti da Baal Addir (letteralmente “Signore Potente”), attraverso la forma Baldir. Come Baal, inoltre, Baldr è una divinità che muore e risorge.

Al nome di Baal potrebbero essere riconducibili anche alcuni toponimi della Svezia meridionale, per esempio Balsby (“villaggio di Baal”) e Balsberget (“la montagna di Baal”). E forse perfino il nome del Mar Baltico potrebbe avere la stessa origine. Il primo a chiamarlo così fu Adamo di Brema nell’XI secolo, ma già Plinio (Storia Naturale, IV, 95) parlava di un’isola dell’Europa settentrionale chiamata Baltia, segno che questo nome ha sicuramente radici antiche.

Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se vi siano testimonianze scritte che parlano esplicitamente di Fenici in Nord Europa a partire dall’età del bronzo. Qui la questione si fa più complessa, poiché abbiamo ben poche fonti sui popoli scandinavi di quell’epoca. Tuttavia, stando alle ipotesi di Felice Vinci, i poemi omerici sono una di queste, ed entrambi menzionano in più occasioni i Fenici. L’Iliade li definisce polydaidaloi (“dai molti talenti”), mentre l’Odissea usa il meno lusinghiero polypaipaloi (“dai molti imbrogli”). Omero accenna ai preziosi tessuti da loro ricamati (Iliade, VI, 289-295) e ad una coppa in argento “di squisita fattura”, che Achille mise tra i premi in palio per la gara di corsa in onore di Patroclo (ibid., XXIII, 740-749). Un altro dei loro appellativi, Sidoni (cioè, della città di Sidone), ricorda i Sitoni menzionati da Tacito (Germania, 45), identificabili appunto con un popolo scandinavo. C’è chi ha sostenuto che il loro nome fosse riconducibile all’odierna città di Sigtuna, non lontana da Stoccolma, chiamata Situne in documenti medievali.

Ma alcune allusioni ai Fenici potrebbero essere presenti anche nei Veda. Nel nome dei Panis, una tribù di ricchi commercianti menzionata nel Rigveda, sembra infatti riecheggiare proprio quello dei Fenici/Punici. Il Rigveda non li vede di buon occhio, dipingendoli come avidi e non religiosi; in questo sembra concordare con l’Odissea. Come il lettore avrà intuito, è molto più probabile che un contatto del genere sia avvenuto nella Scandinavia dell’età del bronzo anziché in India. Qualcuno però potrebbe rimanere perplesso sull’associare i Veda al Nord Europa. A tal proposito giova ricordare le tesi di Bal Gangadhar Tilak sull’origine nordica di questi testi, che – oltre a conciliarsi alla perfezione con quelle di Felice Vinci – renderebbero più coerenti anche i numerosi passaggi del Rigveda che fanno riferimento al mare e alla navigazione.

Insomma, le prove della presenza fenicia in Nord Europa non sono esigue: ciò significa che la pista seguita da Vennemann è molto probabilmente quella giusta. Ma per poter disegnare un quadro complessivo dei contatti tra Indoeuropei e Semiti ci resta ancora da consultare la fonte più importante: la Bibbia.

Indoeuropei nella Bibbia

L’Antico Testamento, com’è noto, è incentrato sulle vicende del popolo ebraico, e in particolare degli Israeliti, i discendenti di Giacobbe. Apparentemente, quindi, si tratta dell’opera “semitica” per eccellenza. Ma perché “apparentemente”? Semplice: ad un’analisi più attenta, emergono in realtà moltissimi parallelismi con il mondo indoeuropeo.

Per cominciare, nel Primo Libro dei Maccabei (12, 21) troviamo l’affermazione secondo cui Giudei e Spartani sarebbero “fratelli”, poiché entrambi discendenti dalla stirpe di Abramo. E in effetti, come avevamo già osservato in questo articolo, vari episodi e personaggi veterotestamentari ricordano molto da vicino quelli della mitologia greca. Per esempio, l’episodio del sacrificio di Isacco da parte del padre Abramo ricorda il sacrificio di Frisso da parte del padre Atamante. Un angelo ferma Abramo così come Eracle ferma Atamante, e un ariete viene sacrificato al posto di Isacco così come un ariete porta in salvo Frisso. La storia di Giuseppe, calunniato dalla moglie di Potifar invaghitasi di lui, ma respinta, ricorda invece quella di Bellerofonte, calunniato per lo stesso motivo da Antea, moglie di Preto. Mosè appena nato viene deposto in una cesta e abbandonato sul fiume, così come il piccolo Perseo e sua madre vengono rinchiusi in una cassa e abbandonati in mare; e così via.

Ma le affinità con il mondo ellenico non si esauriscono qui. Come non notare la somiglianza tra Dan, figlio di Giacobbe e della schiava Bila, e Danao, eponimo degli Elleni (o Danai, appunto) e figlio di Belo? Il fatto che la tribù di Dan vivesse “sulle navi” (Gdc 5, 17) rende ancora più evidente l’analogia con i bellicosi Danai omerici. E questo apre alla possibilità che alcune tribù israelite fossero a tutti gli effetti indoeuropee. Di recente è stata ipotizzata un’origine non semitica anche per i Leviti: il loro nome deriverebbe infatti dal miceneo *ra-wo/*la-wo (da cui il greco laos), che può indicare sia, genericamente, il “popolo”, sia, più nello specifico, i “soldati”. E in effetti, diversi passi biblici (per esempio Gen 49, 5-7; Es 32, 27-28; Nm 1, 53) suggeriscono che il ruolo originario dei Leviti fosse proprio quello militare.

Mosè ordina ai Leviti di punire l’idolatria degli Israeliti, in un’incisione di Julius Schnorr von Carolsfeld (1860).

Sebbene i parallelismi con la Grecia antica siano i più noti, non sono certo gli unici. Gordon (1958) evidenziò ad esempio vari temi in comune tra Bibbia e letteratura epica indoeuropea, non solo greca ma anche indiana. Il racconto indiano del Diluvio è, insieme a quello sumero, uno dei più simili a quello biblico. E nei nomi del dio indiano Brahma e della sua consorte Sarasvati riecheggiano quelli del patriarca Abramo e della moglie Sara. Ma potremmo proseguire a lungo…

Riguardo all’aspetto culturale, la Bibbia ci informa che il corpo del re Saul, morto in battaglia, venne cremato (1 Sam 31, 12). Qui ci troviamo al cospetto di un’usanza tipicamente indoeuropea, insolita presso i popoli semitici. Così come indoeuropea, ricorda ancora Gordon, è l’usanza di proporre indovinelli in occasione dei matrimoni, che troviamo anche nel racconto biblico di Sansone. Riguardo a Sansone, notiamo che egli apparteneva alla tribù di Dan, che, come abbiamo visto poc’anzi, era probabilmente indoeuropea, ed ebbe ripetutamente a che fare coi Filistei, anch’essi indoeuropei nonché – forse – imparentati con i Micenei (non è un caso che il palazzo dove Sansone viene condotto dai Filistei una volta catturato sia stato paragonato al megaron miceneo).

Che dire poi del fatto che la terra promessa viene definita “un paese dove scorre latte e miele”? I consumatori di latte per eccellenza, oggi come nell’antichità, sono i popoli indoeuropei, tra i pochi in grado di digerire il lattosio. Non solo: la menzione del miele insieme al latte fa pensare alla sura, una bevanda alcolica menzionata nei Veda, che consisteva proprio in latte di giumenta fermentato con miele (Parpola, 2004-2005). È strano che per un popolo semitico i simboli per eccellenza dell’abbondanza e della prosperità siano cibi e bevande tipicamente indoeuropei…

Notiamo, infine, che esistono vari termini biblici per cui è stata proposta un’etimologia indoeuropea. Tra i toponimi, possiamo citare nientemeno che il fiume Giordano. Esso viene di solito ricondotto alla radice semitica y-r-d, che ha il significato di “discendere”; tuttavia, la presenza di altri fiumi dai nomi simili disseminati in tutta Europa (l’Eridano della mitologia greca, lo Iardano omerico, il Rodano francese e così via) rende possibili anche altre interpretazioni. Una di esse ricollega il nome ai termini persiani yor “anno” e don “fiume”, che insieme avrebbero designato un fiume dalla portata costante durante l’anno. Anche prendendo in considerazione il proto-iranico (dove avremmo *yahr e *danu), la sostanza non cambia. Anzi, i soli fonemi D-N, che ritroviamo in altri idronimi indoeuropei come il Don e il Danubio, farebbero sospettare una medesima origine per il Giordano.

Tra i nomi di persona, Golia è stato paragonato al nome lidio Alyattes e al cario Wljat/Wliat (Vernet Pons, 2012). Quest’ultimo, in particolare, deriverebbe dalla radice indoeuropea *welh-, collegata al significato di forza e potenza (da cui ad esempio il latino valeo “essere forte” e il tocario B walo “re”), e calzerebbe quindi a pennello al gigante filisteo. Ma anche nomi di personaggi ebrei, dall’etimologia apparentemente semitica, potrebbero essere spiegati diversamente. Il nome di Tamar, per esempio, significa letteralmente “dattero” o “palma da dattero” in ebraico, ma ricorda anche l’ittita dammara “sacerdotessa del culto” e il greco antico damar “moglie, sposa”. Tali significati appaiono decisamente più plausibili se esaminiamo la storia di Tamar (Gen 38, 6 sgg.). Già moglie di Er, primogenito di Giuda, e poi del fratello Onan, poiché entrambi i mariti morirono senza lasciare eredi, si travestì da prostituta in modo da concepire dal suocero (anticamente la prostituzione era appannaggio anche delle sacerdotesse).

Tra i vocaboli riconducibili a prestiti indoeuropei possiamo citare debir, che designava la parte più sacra (il cosiddetto “Santo dei Santi”) del Tempio di Salomone. La parola deriverebbe dal miceneo da-po-ri-to-ju, predecessore del greco labyrinthos: il significato originario del termine (come deducibile dal suffisso -inthos, tipico dei toponimi) sarebbe stato infatti quello di “luogo sacro”. Altre parole ebraiche di etimologia probabilmente indoeuropea (in particolare greca) sono pilegesh “concubina” (greco pallakis, idem); lishkah “sala” (greco leskha “giaciglio, tomba” ma anche “luogo di ritrovo”); mekerah “spada, coltello” (greco makaira “spada”); parbar “struttura adiacente al tempio” (greco peribolos “giardino recintato”; persiano parvar “vialetto, vestibolo”); ed altre ancora.

Alla luce di tutto ciò, l’ipotesi che gli Israeliti biblici vivessero in un ambiente indoeuropeizzato, o che addirittura fossero – almeno in parte – indoeuropei essi stessi, è decisamente più di una mera supposizione.

Una visione d’insieme

Cerchiamo dunque di mettere un po’ d’ordine nel materiale che abbiamo raccolto finora. Abbiamo visto che Indoeuropei e Semiti devono essere vissuti a stretto contatto: ciò è certamente avvenuto nel corso di diverse epoche, e – di conseguenza – anche in diversi luoghi. Ecco una possibile ricostruzione degli eventi:

  • Prima del 10.000 a.C., nell’Europa occidentale (Atlantide compresa) si parlavano lingue afroasiatiche, mentre nel resto d’Europa idiomi “pre-indoeuropei”; l’indoeuropeo non si era ancora differenziato. Alcuni millenni più tardi, la famiglia afroasiatica si era scissa in più rami: uno di essi, quello che Vennemann chiama “atlantico”, potrebbe essere rimasto in Occidente, dando origine in loco alle lingue semitiche che solo in seguito sarebbero arrivate in Medio Oriente, e fungendo (forse tra il II e il I millennio a.C.) come substrato per il celtico.
  • Nel frattempo, nell’Europa settentrionale cominciava a svilupparsi l’indoeuropeo, che ancora indiviso potrebbe aver adottato termini semitici come quelli per indicare il vino (proto-semitico occidentale *wayn, proto-indoeuropeo *weyhnom) e il toro (proto-semitico *tawr, proto-indoeuropeo *tawros). A questo periodo potrebbe risalire anche la trasmissione di alcuni racconti e topoi che ritroviamo sia nella Bibbia che nella letteratura indoeuropea.
  • Gli elementi che suggeriscono un contatto tra Israeliti e Indoeuropei possono avere diverse spiegazioni, non del tutto inconciliabili fra loro. È certamente possibile che le due stirpi siano venute in contatto nel Levante dell’età del bronzo; ma è anche possibile, come sostenuto da Cinzia Mele, che la Bibbia racconti vicende svoltesi in Nord Europa a partire dal IV millennio a.C., che ebbero come protagonisti gli Indoeuropei e di cui si appropriarono i popoli semitici mediorientali solo dopo la deportazione in Babilonia, che riguardò in realtà proprio i “nordici”. Personalmente, pur rimanendo dell’opinione che l’Antico Testamento sia un’opera semitica, ritengo anche che la quantità di materiale indoeuropeo che contiene sia sufficiente per rimettere in discussione la collocazione geografica degli eventi descritti.
  • Come intuito da Theo Vennemann e confermato da osservazioni archeologiche, linguistiche e mitologiche, l’Europa settentrionale fu soggetta ad una colonizzazione fenicia che si protrasse probabilmente dalla prima metà del II millennio a.C. fino verso il 200 a.C., quando Cartagine perse il predominio sul Mediterraneo.

Insomma, dovrebbe ormai essere evidente che la storia europea è molto più intricata di quanto credessimo. Chiaramente servirà ancora molto lavoro per sbrogliare questa matassa; tuttavia, il disegno che già si intravede, per quanto ancora incompleto, incoraggia senza dubbio a proseguire la ricerca.

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